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Alberto Moravia - Il conformista

EPILOGO
CAPITOLO SECONDO

Le strade della periferia erano deserte, silenziose e oscure, quasi morte, come le estremità di un gran corpo il cui sangue si sia ad un tratto tutto raccolto in un sol punto. Ma come la macchina si avvicinò al centro, Marcello e Giulia videro gruppi sempre più frequenti di persone che gesticolavano e gridavano. Ad un crocicchio, Marcello rallentò e si fermò per lasciar passare una fila di camion affollati di ragazzi e di giovani donne che sventolavano bandiere e cartelli con scritte. Questi camion imbandierati e sovraccarichi, con la gente aggrappata ai parafanghi e alle predelle, furono salutati dagli applausi confusi della folla che gremiva i marciapiedi. Qualcuno si affacciò al finestrino della macchina di Marcello e urlò in faccia a Giulia: «Viva la libertà! » scomparendo, subito dopo, come risucchiato dalla moltitudine che nereggiava intorno. Giulia disse: «Non sarebbe meglio tornare a casa?»
« Perché? » rispose Marcello sorvegliando la strada attraverso il vetro del parabrise, « sono cosi contenti... non pensano certo a far del male... ora mettiamo la macchina in qualche posto e poi camminiamo anche noi per vedere quel che succede ».
«Non ce la ruberanno la macchina?»
«Che assurdità».
Nella sua solita maniera riflessiva, pacata, paziente, Marcello guidò l’automobile attraverso le affollate vie del centro. Nella penombra rada dell’oscuramento antiaereo, si vedevano distintamente i movimenti della folla, le sue molte maniere di raggrupparsi, di scontrarsi, di propagarsi, di correre, tutte diverse ma tutte pervase da quella sola e sincera esultanza per la caduta della dittatura. Chi si abbracciava, senza conoscersi, nel mezzo della strada; chi, dopo essere stato fermo a lungo, muto e attento, al passaggio di un camion imbandierato, tutto ad un tratto levava il cappello urlando qualche frase di applauso; chi correva, come una staffetta, da un gruppo all’altro, ripetendo frasi di incitamento e di gioia; chi, come invaso da una furia subitanea di odio, levava il pugno minacciosamente contro qualche palazzo chiuso e buio che era stato sede sinora di un pubblico ufficio. Marcello notò che c’erano moltissime donne al braccio dei mariti e talvolta con i bambini, cosa che non avveniva più da tempo nelle manifestazioni forzate del regime caduto. Colonne di uomini risoluti e come uniti da qualche segreto legame di partito, si formavano e sfilavano un momento tra gli applausi e poi parevano perdersi tra la folla; grossi gruppi approvanti circondavano qualsiasi oratore improvvisato; altri si riunivano insieme per cantare a squarciagola un inno libertario. Marcello guidava piano la macchina, paziente, rispettoso di ogni assembramento, avanzando lentamente. « Come sono contenti », disse Giulia in tono bonario e quasi solidale, dimenticando ad un tratto timori e interessi.
« Al loro posto lo sarei anch’io ».
Risalirono un buon tratto del Corso, sempre tra la folla, dietro altre due o tre macchine che avanzavano anch’esse lentamente; poi, ad un vicolo, Marcello girò, e, dopo avere atteso che fosse passata una colonna di dimostranti, riuscì ad entrarvi. Condusse velocemente la macchina dietro il vicolo, in altra viuzza del tutto deserta, si fermò, spense il motore e, voltandosi verso la moglie, disse: « Allora scendiamo ».
Giulia discese senza dir parola e Marcello, chiusi con cura gli sportelli, si avviò con lei verso la strada donde erano venuti. Adesso si sentiva del tutto calmo, padrone di sé, distaccato, come aveva desiderato di essere durante tutto quel giorno. Però si sorvegliava; e come si affacciò di nuovo nella strada affollata, e la gioia della folla gli esplose in faccia, irruente, tumultuosa, sincera, aggressiva, si domandò subito, non senza ansietà, se questa gioia non destasse nel suo animo qualche sentimento meno che sereno. No, pensò dopo un momento di attento esame, non provava né rammarico, né dispetto, né paura. Era veramente calmo, apatico, quasi spento e disposto a contemplare la gioia degli altri senza, è vero, parteciparvi, ma anche senza risentirla come una minaccia o un affronto.
Presero ad aggirarsi senza meta tra la folla, da un gruppo all’altro, da un marciapiede all’altro. Giulia, ormai, non aveva più paura e pareva anche lei calma e padrona di sé, come lui; ma, come pensò, per motivi diversi, per la sua bonaria capacità di immedesimarsi coi sentimenti altrui. La folla, nonché diminuire, sembrava aumentare ad ogni momento. Era una folla, come notò Marcello, quasi unicamente gioiosa, di una gioia stupefatta, incredula, maldestra nell’esprimersi, ancora non del tutto sicura di poterlo fare impunemente. Passarono, aprendosi a fatica un varco tra la moltitudine, altri camion carichi di operai, uomini e donne, che sventolavano bandiere quali tricolori e quali rosse. Passò una piccola macchina tedesca scoperta, con due ufficiali adagiati tranquillamente sui sedili e un soldato in tenuta di guerra seduto sul bordo dello sportello, il mitra in pugno: dai marciapiedi si levarono fischi e grida di scherno. Marcello notò che c’erano anche molti soldati, sbracati e senza armi, che si abbracciavano, le facce stolide di contadini illuminate da una speranza inebriata. Per la prima volta, vedendo due di questi soldati che camminavano cingendosi l’un l’altro la vita, come due fidanzati, le baionette ballonzolanti sulle tuniche sbottonate, Marcello si accorse di provare un sentimento molto simile allo sdegno : era gente in uniforme e per lui, invincibilmente, l’uniforme voleva dire decoro e dignità, qualunque fosse il sentimento di chi l’indossava. Giulia, quasi indovinando i suoi pensieri, gli domandò additando i due soldati affettuosi e discinti : « Ma non hanno detto che la guerra continua? »
« L’hanno detto », egli rispose dandosi torto ad un tratto, con uno sforzo quasi penoso di comprensione, « ma non è vero... e quei poveretti hanno ragione di esser contenti: per loro la guerra è davvero finita ».
Davanti il portone del ministero in cui Marcello si era recato a prendere gli ordini alla vigilia della sua partenza per Parigi, c’era una grande folla che protestava, urlava e agitava in aria i pugni. Quelli che stavano a ridosso del portone battevano con le mani per farsi aprire. Si udiva il nome del ministro or ora caduto ripetuto da molti a gran voce, con un particolare tono di antipatia e di disprezzo. Marcello osservò a lungo l’assembramento senza capire che cosa volessero i dimostranti. Finalmente il portone si disserrò appena e nella fessura apparve, pallido e implorante, un usciere in divisa gallonata.
Egli disse qualche cosa ai più vicini, qualcuno entrò nel portone che si chiuse subito, la folla urlò ancora un poco e poi si disperse; ma non del tutto, che alcuni ostinati restarono a bussare e a gridare contro il portone chiuso.
Marcello lasciò il ministero e passò nella piazza attigua. Un grido di « largo, largo » fece indietreggiare la folla e lui con essa. Sporgendo il capo, vide venire avanti tre o quattro ragazzacci che tiravano per la fune un grande busto del dittatore. Il busto, color bronzo, era in realtà di gesso dipinto, come si capiva da alcune sbocconcellature bianche prodotte dai rimbalzi che i tre ragazzi gli facevano fare sul selciato. Un piccolo uomo nero, la faccia divorata da un enorme paio di occhiali cerchiati di tartaruga, si voltò, dopo aver guardato il busto, verso Marcello e disse ridendo, in tono sentenzioso : « Sembrava bronzo ma in realtà era volgare creta ». Marcello non gli rispose e per un momento, tendendo il collo, guardò con intensità il busto, mentre, rimbalzando pesantemente, passava davanti a lui. Era un busto come ce n’erano centinaia sparsi nei ministeri e nei pubblici uffici : grossolanamente stilizzato, la mascella sporgente, gli occhi incavati e rotondi, il cranio gonfio e liscio. Non potè fare a meno di pensare che quella bocca di finto bronzo, simulacro di altra bocca viva già cosi arrogante, adesso strisciava nella polvere, tra i gridi di scherno e i fischi di quella stessa folla che un tempo l’aveva così fervidamente acclamato. Ancora una volta, Giulia parve intuire i suoi pensieri, perché gli mormorò : « Pensa, una volta bastava un busto come quello, in un’anticamera, per fare abbassare la voce alla gente ».
Egli rispose seccamente: « Adesso, se ce l’avessero in mano in carne e ossa, gli farebbero come a quel busto ».
«Credi che l’ammazzeranno?»
«Certamente, se potranno».
Fecero ancora qualche passo, tra la folla che si agitava e turbinava al buio, come l’acqua di una riottosa e malcerta inondazione. All’angolo di una strada, un gruppo di persone aveva appoggiato al cantone di un palazzo una lunga scala a pioli, uno era salito in cima alla scala e vibrava dei gran colpi di martello contro una lapide che portava il nome del regime. Qualcuno disse a Marcello, ridendo: « Ci sono dei fasci dappertutto... soltanto per scalpellarli via ci vorranno degli anni».
« Proprio cosi », disse Marcello.
Attraversarono la piazza, e raggiunsero, sempre facendosi largo tra la folla, la galleria. Quasi al buio, nel fioco chiarore delle lampadine oscurate, un gruppo di persone faceva circolo intorno a qualche cosa che non si vedeva, proprio nel punto dove i due bracci della galleria confluivano. Marcello si avvicinò, si sporse e vide che si trattava di un ragazzo che ballava parodiando comicamente i gesti e le contorsioni delle mime quando eseguono la danza del ventre: aveva un ritratto del dittatore, un’oleografia a colori, infilata sulle spalle per uno squarcio come un collare e faceva pensare a qualcuno che, dopo essere stato messo alla gogna, ballasse con lo strumento di tortura ancora appeso al collo. Mentre tornavano verso la piazza, un giovane ufficiale con la barbetta nera e gli occhi spiritati, al braccio di una ragazza bruna tutta infervorata e coi capelli al vento, si sporse verso Marcello gridandogli in tono insieme esaltato e didattico: «Viva pure la libertà... ma, soprattutto, viva il re».
Giulia guardò il marito. « Viva il re», disse Marcello senza batter ciglio. Si allontanarono e poi Marcello disse : « Ci sono molti monarchici che cercano di mettere la cosa a favore della monarchia... andiamo a vedere in piazza del Quirinale».
Tornarono, non senza fatica, nel vicolo e di là nella viuzza dove avevano lasciato la macchina. Giulia disse al marito, mentre Marcello accendeva il motore: «Ma è veramente necessario... sono cosi stanca di questi strilli».
« Tanto non abbiamo niente di meglio da fare».
Velocemente, Marcello condusse la macchina per vie traverse su fino a Piazza del Quirinale. Come giunsero nella piazza, videro che non era compietamente piena. La folla, più fitta sotto il balcone al quale, di solito, si affacciavano i personaggi della famiglia reale, si andava diradando ai margini della piazza, lasciando molto spazio vuoto. Anche qui vi era poca luce, i grandi lampioni di ferro con le lampade a grappolo, gialle e tristi, illuminavano debolmente il nereggiare della moltitudine. Né gli applausi né le invocazioni erano molto frequenti; più che altrove, pareva, in questa piazza, che la moltitudine non sapesse troppo bene quel che volesse. Forse c’era più curiosità che entusiasmo: allo stesso modo che un tempo la gente si radunava come ad uno spettacolo per vedere e udire il dittatore, adesso avrebbe voluto vedere e udire colui che aveva abbattuto il dittatore. Giulia domandò piano, mentre la macchina girava dolcemente intorno la piazza : « Ma il re si affaccerà al balcone? »
Prima di rispondere, Marcello storse il viso per guardare in sù, attraverso il vetro del parabrise, al balcone. Era fiocamente illuminato da due torce rossastre, nel mezzo si vedeva la persiana chiusa della finestra. Poi rispose: «Non credo... perché dovrebbe affacciarsi ? »
« E allora che cosa aspetta tutta questa gente ? »
« Niente... è l’abitudine di andare in piazza e chiamare qualcuno».
Marcello girò pian piano intorno la piazza, quasi scostando gentilmente coi parafanghi i gruppi restii a muoversi. Giulia disse in maniera imprevista: « Sai, mi sento quasi delusa ».
« Perché ? »
« Pensavo che avrebbero fatto chissà che cosa : bruciato case, ammazzato gente... quando siamo usciti avevo paura per te e per questo sono venuta... invece niente: soltanto strilli, applausi, evviva, abbasso, canzoni, sfilate... ».
Marcello non potè fare a meno di rispondere : « Il peggio deve ancora venire ».
«Cosa vuoi dire?» ella domandò con voce improvvisamente spaventata, « per noi o per gli altri ? »
« Per noi e per gli altri ».
Subito si penti di aver parlato poiché senti la mano di Giulia afferrargli un braccio, forte, con angoscia : « Io lo sapevo tutto il tempo che non era vero quello che mi dicevi: che tutto si aggiusterà... e ora anche tu lo confermi ».
« Non spaventarti... ho detto cosi per dire ».
Questa volta Giulia non parlò ma si limitò ad afferrargli il braccio con le due mani stringendosi contro di lui. Impacciato ma non volendo respingerla, Marcello guidò la macchina per vie secondarie di nuovo verso il Corso. Una volta sul Corso, passando per strade traverse e meno frequentate, raggiunse Piazza del Popolo. Di qui si diresse, su per le rampe del Pincio, verso Villa Borghese. Attraversarono il Pincio, buio e popolato di busti di marmo, girarono intorno il cavalcatoio in direzione di Via Veneto. Come furono all’ingresso di Porta Pinciana, Giulia disse improvvisamente, con voce triste e languente: «Non voglio andare a casa».
«Perché?» domandò Marcello rallentando la corsa.
« Non so perché», ella rispose guardando davanti a sé, « mi si stringe il cuore soltanto a pensarci... mi pare che sia una casa da cui stiamo per partire per sempre... niente di terribile però», si affrettò a soggiungere, « soltanto una casa che si deve sgomberare ».
« Allora dove vuoi andare ? »
« Dove vuoi tu ».
« Vuoi fare un giro per Villa Borghese? »
« Si, facciamolo pure ».
Marcello guidò la macchina per un lungo viale buio in fondo al quale si vedeva biancheggiare la fabbrica del museo Borghese. Come giunsero nel piazzale, fermò la macchina, spense il motore e disse : « Vogliamo far due passi ? »
« Si, se vuoi ».
Discesero dalla macchina e, braccio sotto braccio, si avviarono verso i giardini che si trovavano dietro il museo. Il parco era deserto, gli avvenimenti politici l’avevano spopolato perfino delle coppie di innamorati. Nella penombra, si vedevano biancheggiare, sullo sfondo silvestre e oscuro degli alberi, le statue di marmo dai gesti elegiaci o eroici. Camminarono fino alla fontana e per un momento indugiarono, in silenzio, a guardarne l’acqua nera e immobile. Adesso Giulia stringeva la mano al marito, inserendo fortemente, come in un minimo abbraccio, le sue dita tra le dita di lui. Ripresero a camminare, imboccarono un viale molto buio, in un bosco di quercie. Dopo qualche passo, Giulia si fermò improvvisamente, e, voltandosi, cinse il collo a Marcello con un braccio e lo baciò sulla bocca. Stettero, cosi, abbracciati, baciandosi, un lungo momento, ritti nel mezzo del viale. Poi si separarono e Giulia sussurrò, prendendo il marito per mano e tirandolo verso il bosco : « Vieni, facciamo l’amore qui... in terra ».
« Ma no », non potè fare a meno di esclamare Marcello, «qui?...»
« Si qui», ella disse, «perché no?... Vieni, ho bisogno di farlo per sentirmi rassicurata ».
« Rassicurata di che ? »
«Tutti pensano alla guerra, alla politica, agli aeroplani... e invece si potrebbe essere cosi felici... vieni... lo farei anche in mezzo ad una delle loro piazze », ella soggiunse con subitanea esasperazione, « se non altro per dimostrare che io almeno sono capace di pensare ad altro... vieni».
Ella pareva esaltata, adesso, e lo precedeva nell’ombra fitta, tra i tronchi degli alberi. «Vedi che bella camera da letto », la udì mormorare, « presto non avremo più casa... ma questa è una camera da letto che non potranno portarci via... vi potremo dormire e amare tutte le volte che vorremo». D’improvviso ella scomparve dai suoi occhi, come entrando dentro terra. Marcello la cercò e poi la intravvide, in quell’oscurità, distesa ai piedi di un albero, in terra, un braccio sotto la testa a far da guanciale, l’altro alzato verso di lui, silenziosamente, in atto di invitarlo a stendersi al suo fianco. Egli ubbidì e, appena si fu disteso, Giulia gli si avviticchiò strettamente, con le gambe e con le braccia, baciandolo con forza cieca ed ottusa per tutto il viso, come cercando sulla fronte e sulle guance altre bocche attraverso le quali penetrare in lui. Ma quasi subito il suo abbraciò si allentò, e Marcello la vide levarsi a metà sopra di lui, guardando nel buio: « Qualcuno sta venendo », ella disse.
Marcello si levò anche lui a sedere e guardò. Tra gli alberi, ancora lontana, si vedeva la luce di una lampadina tascabile avanzare oscillando, preceduta in terra da un debole chiarore circolare. Non si sentiva un sol rumore, il fogliame morto che ricopriva il terreno soffocava i passi dello sconosciuto. La lampadina avanzava nella loro direzione e Giulia, ad un tratto, si ricompose e si levò a sedere, prendendosi le ginocchia tra le braccia. Seduti, fianco a fianco, contro l’albero, guardarono la luce avvicinarsi: « Sarà una guardia », mormorò Giulia.
Adesso la lampadina proiettava il suo raggio in terra a poca distanza da loro, poi si alzò e il raggio li investi in pieno. Abbagliati, guardarono a loro volta alla figura maschile, non più che un’ombra, dal cui pugno scaturiva quella luce bianca. La luce, pensò Marcello, doveva abbassarsi, una volta che la guardia li avesse ben bene guardati in faccia. E invece, no, ecco la luce prolungare lo sguardo, in un silenzio che gli parve pieno di meraviglia e di riflessione. « Ma si può sapere che cosa volete? » domandò allora con voce risentita.
«Non voglio nulla, Marcello», rispose subito una voce dolce. Nello stesso tempo, la luce si abbassò e prese di nuovo a muoversi, allontanandosi da loro. « Ma chi è ? » mormorò Giulia, « sembra che ti conosca... ».
Marcello stava fermo, senza respiro, profondamente turbato. Poi disse alla moglie : « Scusami, un momento... vengo subito ». Di un balzo fu in piedi e rincorse lo sconosciuto.
Lo raggiunse sul limite del bosco, presso il piedistallo di una di quelle statue di marmo bianco. Poco distante c’era un fanale, e, come l’uomo, al rumore dei suoi passi, si voltò, lo riconobbe subito, sebbene fossero trascorsi tanti anni, dal viso glabro e ascetico sotto i capelli tagliati a spazzola. Allora, l’aveva veduto chiuso nella tunica di autista; anche adesso indossava una divisa, nera, abbottonata fino al collo, con pantaloni sbuffanti e gambali di cuoio nero. Teneva il berretto sotto il braccio e stringeva in mano la lampadina tascabile. Disse subito sorridendo: «Chi non muore si rivede».
La frase parve a Marcello fin troppo adatta alle circostanze, sebbene in maniera scherzosa e, forse, inconsapevole. Disse, ansimante per il turbamento e per la corsa: «Ma io credevo di... di averti ucciso».
« Io, invece, speravo che tu l’avessi saputo, Marcello, che mi avevano salvato », rispose Lino tranquillamente, « un giornale, è vero, annunziò che ero morto ma perché ci fu un equivoco... mori un altro all’ospedale, nel letto accanto al mio... e cosi tu mi credevi morto... allora ho detto bene: chi non muore si rivede».
Ora, più che del ritrovamento di Lino, Marcello provava orrore del tono discorsivo, familiare, eppure funebre, che si era stabilito subito tra di loro. Disse con dolore: «Ma dall’averti creduto morto, sono venute tante conseguenze. E tu invece non eri morto ».
« Anche per me, Marcello, vennero tante conseguenze», disse Lino guardandolo con una specie di compassione, « pensai che fosse un avvertimento e mi sposai... poi mia moglie mori... e poi », soggiunse più lentamente, « tutto è ricominciato come prima... adesso faccio la guardia notturna... questi giardini sono pieni di bei ragazzi come te». Disse queste parole con una sfrontatezza placida e dolce, senz’ombra, però, di lusinga. Marcello notò per la prima volta che i suoi capelli erano quasi grigi e che il viso era un po’ ingrassato. « E tu ti sei sposato... quella era tua moglie, nevvero? »
Improvvisamente, Marcello non potè più sopportare quel chiacchiericcio sommesso e squallido. Disse, afferrando l’uomo per le spalle e scuotendolo: « Mi parli come se nulla fosse successo... ma ti rendi conto che hai distrutto la mia vita? »
Lino rispose, senza tentare di svincolarsi: «Perché mi dici questo, Marcello? Sei sposato, magari hai anche figli, hai l’aria di essere agiato, di che ti lamenti? Sarebbe stato peggio se tu mi avessi ucciso davvero ».
« Ma io », non potè fare a meno di esclamare Marcello, « io quando ti ho conosciuto ero innocente... e dopo non lo sono più stato, mai più ».
Vide Lino guardarlo con stupore: «Ma tutti, Marcello, siamo stati innocenti... non sono forse stato innocente anch’io? E tutti la perdiamo la nostra innocenza, in un modo o nell’altro... è la normalità». Egli si liberò senza fatica dalla stretta già allentata di Marcello e soggiunse in tono di complicità: «Guarda, ecco tua moglie... sarà bene che ci lasciamo».
«Marcello», disse nell’ombra la voce di Giulia.
Egli si voltò e vide Giulia che si avvicinava, incerta. Nello stesso momento, Lino, assestandosi sul capo il berretto, fece un gesto di saluto e si allontanò in fretta in direzione del museo. « Ma si può sapere chi era? » domandò Giulia.
« Un mio compagno di scuola», rispose Marcello, «che è finito guardia notturna».
«Andiamo a casa», ella disse riprendendogli il braccio.
« Non vuoi più passeggiare ? »
«No... preferisco andare a casa».
Raggiunsero la macchina, salirono e poi fino a casa non parlarono più. Pur guidando, Marcello ripensava alle parole di Lino, inconsapevolmente significative: « ... tutti la perdiamo, la nostra innocenza, in un modo o in un altro: è la normalità». In quelle parole, pensò, era condensato un giudizio sulla sua vita. Egli aveva fatto quello che aveva fatto per riscattarsi di un delitto immaginario; e, tuttavia, le parole di Lino gli facevano capire per la prima volta che anche ove non l’avesse incontrato e non gli avesse sparato e non si fosse convinto di averlo ucciso, anche, insomma, se non fosse avvenuto nulla, proprio perché in ogni caso avrebbe dovuto perdere l’innocenza e, conseguentemente, avrebbe desiderato riacquistarla, egli avrebbe fatto quello che aveva fatto. La normalità era proprio questo affannoso quanto vano desiderio di giustificare la propria vita insidiata dalla colpa originaria e non il miraggio fallace che aveva inseguito fin dal giorno del suo incontro con Lino. Udì Giulia domandare : « A che ora partiremo domani mattina? » e scacciò via questi pensieri come tanti testimoni importuni e ormai inutili del proprio errore.
«Il più presto possibile», rispose.
 
Alberto Moravia
Il conformista