ÈÒÀËÜßÍÑÊÈÉ ßÇÛÊ
Alberto Moravia - Il conformista

PARTE SECONDA
CAPITOLO NONO

Fuori, il professore sedette al volante dell’automobile, lasciando lo sportello aperto. « Suo marito può andare avanti col mio », disse Lina a Giulia, « e lei venire dietro con me ». Ma Giulia rispose con voce canzonatoria ed ebbra : « Perché ? Per conto mio preferisco andare davanti », e sali con decisione a fianco di Quadri. Cosi Marcello e Lina si trovarono l’uno accanto all’altro, sui sedili posteriori.
Adesso Marcello desiderava prendere in parola la donna comportandosi come se avesse veramente creduto di esserne amato. C’era in questo desiderio oltre ad un impulso vendicativo, quasi un resto di speranza: come se, dopo tutto, in una maniera contraddittoria e involontaria, egli si fosse ancora illuso sui sentimenti di Lina. La macchina si mosse, rallentò in un punto buio per girare in una strada traversa; allora, approfittando dell’oscurità, Marcello afferrò la mano che Lina teneva sulle ginocchia riconducendola sul sedile, tra i loro due corpi seduti. La vide voltarsi, al contatto, con uno scatto iroso, che, però, si trasformò subito in un falso, complice gesto di supplichevole ammonimento. La macchina correva infilando una dopo l’altra le viuzze del Quartiere Latino e Marcello stringeva la mano di Lina. La sentiva, nella propria, tendersi tutta, rifiutando non soltanto coi muscoli ma, si sarebbe detto, anche con la pelle, la sua carezza, in un brulichio impotente delle dita in cui parevano mescolarsi ripugnanza, indignazione e collera. Ad una svolta, la macchina sbandò ed essi caddero l’uno contro l'altro. Allora Marcello afferrò Lina alla nuca, come si fa con un gatto che potrebbe rivoltarsi e graffiare, e torcendogli da una parte il capo, la baciò sulla bocca. Ella tentò, a tutta prima, di svincolarsi, ma Marcello strinse con maggior forza la nuca rasata, esile, come di ragazzo; e allora, con un gemito sommesso di dolore, Lina cessò del tutto di resistere e subì il bacio. Però le sue labbra, come Marcello avverti chiaramente, si torcevano in una smorfia di disgusto; e, nello stesso tempo, la mano che tuttora egli stringeva nella sua, gli ficcava le unghie aguzze nella palma: gesto apparentemente voluttuoso ma che Marcello sapeva in realtà traboccante di ribrezzo e avversione. Egli prolungò il bacio più a lungo che fosse possibile, guardando ora agli occhi di lei, scintillanti di odio e di impaziente repulsione, ora, invece, alle due teste nere e immobili, là davanti, di Giulia e di Quadri. I fanali di una macchina che veniva incontro alla loro illuminarono vividamente il parabrise: Marcello lasciò Lina e si rigettò indietro sul sedile.
La vide, con la coda dell’occhio, ricadere anche lei all’indietro e poi, lentamente, levando alla bocca il fazzoletto, asciugarsela con un gesto riflessivo e pieno di schifo. Allora, osservando con quanta cura e con quanta ripugnanza ella si detergeva le labbra che, secondo la finzione, avrebbero dovuto essere invece ancora palpitanti e avide del bacio, gli venne un disperato, oscuro, spaventoso sentimento di dolore.
« Amami », avrebbe voluto gridare, « amami... per l’amor di Dio». Gli parve ad un tratto che dall’amore di Lina per lui, cosi desiderato e cosi impossibile, dipendesse ormai non soltanto la propria ma anche la vita di lei. Ora, infatti, come per contagio dell’avversione irriducibile di Lina, capiva di provare anche lui, seppure mischiato all’amore e da questo inseparabile, un odio sanguigno, omicida. Pensò che in quel momento l’avrebbe volentieri uccisa; non sembrandogli possibile di sopportare ancora di saperla al tempo stesso viva e nemica; e pensò anche, pur spaventandosi di pensarlo, che vederla morire gli avrebbe ormai, forse, ispirato maggior piacere che esserne amato. Poi, con subitaneo e generoso moto dell’animo, si penti e si disse: «Grazie al cielo, ella non sarà in Savoia quando Orlando e gli altri ci andranno... grazie al cielo ». E comprese che, in realtà, aveva desiderato, per un momento, di farla morire con il marito, nello stesso modo e nella stessa occasione.
La macchina si fermò ed essi discesero. Marcello intravvide una strada buia di sobborgo, tra una fila ineguale di casette e un muro di giardino. « Vedrà », disse Lina prendendo Giulia sottobraccio, « non è proprio un luogo per educande... ma è interessante». Si avvicinarono ad una porta illuminata. Sopra la porta, un piccolo rettangolo di vetro rosso portava, a lettere azzurre, la scritta : « La cravate noire ». «La cravatta nera», spiegò Lina a Giulia «la cravatta che portano gli uomini con lo smoking e qui dentro portano tutte le donne, dalle cameriere alla padrona». Entrarono nel vestibolo; e, infatti, subito, una testa dai tratti duri e dai capelli corti, ma imberbe e di bianchezza e fisionomia muliebre, si sporse al disopra del banco del guardaroba, dicendo con voce secca: « Vestiaire ». Giulia divertita si accostò al banco e si voltò lasciando cadere dalle spalle nude la mantiglia nelle mani di questa guardarobiera in giacca nera, camicia inamidata e cravatta a farfalla. Quindi, in un’aria densa di fumo e assordante di musica e di voci, passarono nella sala da ballo.
Una donna formosa, di età incerta ma non giovanile, il viso pingue, pallido e liscio stretto sotto il mento dalla solita cravatta nera a farfalla, venne loro incontro tra i tavoli affollati. Ella salutò con affettuosa familiarità la moglie di Quadri e poi, levando all’occhio imperioso un monocolo legato con un cordone di seta al risvolto della giubba maschile, disse : « Quattro persone... ho proprio quello che ci vuole per lei, signora Quadri... prego, mi segua». Lina, che il luogo pareva aver messo di buon umore, disse, chinandosi sulla spalla della donna dal monocolo, qualche cosa di malizioso e di allegro a cui, colei, proprio come un uomo, rispose con un’alzata di spalle e una smorfia di disdegno. Cosi, seguendola, giunsero in fondo alla sala ad una tavola libera. « Voilà », disse la direttrice. A sua volta, ella si chinò su Lina che si era seduta, le disse qualche cosa all’orecchio, con aria giocosa e persino birichina e quindi, impettita, il capo lustro e piccolo ritto imperiosamente, si allontanò tra i tavoli.
Venne una cameriera piccola, tarchiata, molto bruna, vestita alla solita foggia, e Lina, con una sicurezza lieta e disinvolta di persona che si trovi finalmente in un luogo secondo i propri gusti, ordinò le bevande. Ella si voltò, poi, verso Giulia e disse allegramente: «Ha visto come sono vestite?... È un vero convento... non è curioso?»
Giulia, come parve a Marcello, sembrava adesso impacciata; e sorrise in maniera affatto convenzionale. In un piccolo spazio rotondo, tra i tavoli, sotto una specie di fungo capovolto di cemento tutto vibrante della luce falsa del neon, si pigiavano numerose coppie, di cui alcune di sole donne. L’orchestra, anch’essa di donne vestite da uomini, era confinata sotto la scala che portava al ballatoio. Il professore disse, un po’ distrattamente : « Questo luogo non mi piace... queste donne mi sembrano più degne di compassione che di curiosità ». Lina non parve aver udito l’osservazione del marito. Gli occhi pieni di una luce divorante, infatuata e vogliosa, non staccava gli sguardi da Giulia. Le propose finalmente, come cedendo ad un desiderio irresistibile, con un riso nervoso : « Vogliamo ballare insieme ? Cosi ci prenderanno per due di loro... è divertente... fingiamo di essere come loro... venga, venga... ».
Ridente, eccitata, si era già alzata in piedi e invitava Giulia ad alzarsi posandole una mano sulla spalla. Giulia la guardò, guardò il marito, irresoluta. Marcello disse asciutto: «Perché mi guardi?... Non c’è niente di male ». Aveva capito che doveva secondare Lina, anche questa volta. Giulia sospirò e, lentamente e malvolentieri, si alzò in piedi. L’altra, intanto, perdendo affatto la testa, ripeteva : « Se lo dice anche suo marito che non c’è niente di male... venga, su, venga ». Giulia disse avviandosi, con aria di malumore: «A dire la verità non ci tengo a passare per una di loro ». Ma precedette Lina e, giunta allo spazio riservato alla danza, si voltò verso di lei, le braccia tese, per farsi abbracciare. Marcello vide Lina avvicinarsi, cingere, con sicurezza e autorità maschili, la vita di Giulia, e poi spingerla, a passo di danza, sulla pista, tra le altre coppie di ballerini. Per un momento, stupefatto in maniera dolorosa e oscura, guardò le due donne che ballavano abbracciate: Giulia era più piccola di Lina, ballavano guancia a guancia e, ad ogni passo, il braccio di Lina pareva stringere di più la vita di Giulia. Gli pareva una vista triste e incredibile: questo, non potè fare a meno di pensare, era l’amore che in un mondo diverso, con una vita diversa, sarebbe stato destinato a lui, che l'avrebbe salvato, di cui avrebbe goduto. Ma una mano si posava sul suo braccio. Si voltò e vide il viso rosso e informe di Quadri che si tendeva verso il suo : « Clerici », disse Quadri con voce commossa, « non creda che non l’abbia capito ».
Marcello lo guardò e disse lentamente : « Mi scusi, ma adesso sono io che non la capisco ».
« Clerici », rispose subito l’altro, « lei sa chi sono io... ma anch’io so chi è lei ». Lo guardava con intensità e, intanto, aveva preso con le due mani i risvolti della giacca di Marcello. Il quale turbato, raggelato da una specie di terrore, lo fissò a sua volta in viso: no, non c’era odio negli occhi di Quadri, bensì una commozione sentimentale, lagrimosa e struggente, e tuttavia, come pensò, discretamente calcolata e maliziosa. Poi Quadri riprese : « Io so chi è lei e mi rendo conto che parlando in questo modo posso darle l’impressione di essere un illuso, un ingenuo, o, addirittura, uno stupido... non importa... Clerici, io voglio, nonostante tutto, parlarle con sincerità e le dico: grazie».
Marcello lo guardò e non disse nulla. I risvolti della sua giacca erano tuttora tra le mani di Quadri e lui sentiva la giacca tirata sul collo come avviene quando qualcuno ci afferra per scaraventarci lontano. « Le dico: grazie », prosegui Quadri, «per non aver accettato di portare in Italia quella lettera... se lei avesse fatto il suo dovere, lei avrebbe preso la lettera, l’avrebbe portata ai suoi superiori... per decifrarla, per farne arrestare i destinatari... lei non lo ha fatto Clerici, non ha voluto farlo... per lealtà, per un’improvvisa resipiscenza, per un dubbio subitaneo, per onestà... non so... so soltanto che lei non l’ha fatto e le ripeto di nuovo: grazie».
Marcello fece un movimento come per rispondere, ma Quadri, lasciando finalmente la giubba, gli turò la bocca con una mano : « No, non mi dica che non ha voluto accettare di spedire la lettera per non insospettirmi, per mantenersi fedele alla sua parte obbligata di sposino in viaggio di nozze... non lo dica perché so che non è vero... lei, in realtà, ha mosso un primo passo verso la redenzione... io la ringrazio di avermi dato l’occasione di aiutarla a muoverlo... continui Clerici... e lei potrà veramente rinascere ad una nuova vita». Quadri si lasciò andare sulla seggiola e finse di voler smorzare la sete con un gran sorso del suo bicchiere. « Ma ecco le signore », disse levandosi in piedi. Marcello stupito si alzò anche lui.
Notò che Lina pareva di malumore. Come si fu seduta, ella apri con aria indispettita e frettolosa il portacipria e in fretta, a piccoli colpi ripetuti e rabbiosi, si diede la cipria sul naso e sulle guance. Placida, invece, indifferente, Giulia si mise accanto al marito e, sotto il tavolo, gli prese una mano, con gesto affettuoso, come per confermargli la propria ripugnanza per Lina. La direttrice dal monocolo si avvicinò e, increspando la guancia liscia e pallida in un sorriso di miele, domandò con voce manierata se tutto andava bene.
Lina rispose seccamente che tutto non poteva andar meglio. La direttrice si chinò verso Giulia e le disse: «Lei è la prima volta che viene qui... posso offrirle un fiore? »
« Si, grazie », disse Giulia sorpresa.
« Cristina », chiamò la direttrice. Si avvicinò una ragazza anch’essa in giubba maschile, assai diversa dalle fioraie bellocce che si trovano di solito nelle sale da ballo: pallida e smunta, senza belletti, con un viso orientale dal naso grande, dalle labbra grosse, dalla fronte calva e ossuta sotto capelli tagliati cortissimi e malamente, come per una malattia che li avesse diradati. Ella tese un cesto pieno di gardenie e la direttrice, sceltane una, l’appuntò sul petto a Giulia dicendo: «Omaggio della direzione».
« Grazie », disse Giulia.
« Non c’è di che », disse la direttrice, « scommetto che la signora è spagnuola... non è vero? »
« Italiana », disse Lina.
« Ah italiana... avrei dovuto pensarlo... con quegli occhi neri... ». Le parole si persero nel brusio della folla, mentre la direttrice e la magra e melanconica Cristina si allontanavano insieme.
L’orchestra, adesso, riprendeva a suonare. Lina si voltò verso Marcello e gli disse quasi irosamente: «Perché non m’invita? Vorrei ballare». Senza dir parola egli si alzò e la segui verso la pista della danza.
Incominciarono a ballare. Lina si teneva alquanto distante da Marcello che non potè fare a meno di ricordare con tristezza l’affetto possessivo con il quale, poco prima, ella si era stretta a Giulia. Ballarono per un poco in silenzio e poi, tutto ad un tratto, Lina disse con una rabbia in cui, stranamente, la finzione della complicità amorosa si tingeva di collera e di avversione: « Invece di baciarmi nell’automobile, con il pericolo che mio marito se ne accorgesse, avresti potuto importi a tua moglie, per la gita a Versailles ».
Marcello rimase stupito dalla naturalezza con la quale ella innestava la sua vera ira sul falso rapporto d’amore; nonché da quel tu, cinico e brutale, proprio di donna che non si faccia scrupolo di tradire il marito; e per un momento non disse nulla. Lina, interpretando a suo modo questo silenzio, insistette: « Perché non parli ora... è questo il tuo amore? Non sei neanche capace di farti ubbidire da quella sciocca di tua moglie ».
« Mia moglie non è una sciocca », egli rispose dolcemente, più incuriosito da questa strana ira che offeso.
Ella si slanciò subito nella via che quella risposta le apriva. « Come, non è una sciocca », esclamò irritata e quasi sorpresa, « ma mio caro, anche un cieco lo vedrebbe. È bella, si, ma perfettamente stupida... una bella bestia... come fai a non rendertene conto? »
« Mi piace cosi com’è », egli disse a caso.
« Un’oca... una stupida... la Costa Azzurra... una piccola provinciale senza un briciolo di cervello... la Costa Azzurra, davvero... e perché non Montecarlo, o Deauville... oppure addirittura la Torre Eiffel?» Ella pareva fuori di sé dalla rabbia, segno, come pensò Marcello, che tra lei e Giulia, durante il ballo c’era stata qualche spiacevole discussione. Egli disse con dolcezza : « Non preoccuparti per mia moglie... domani mattina presentati all’albergo... Giulia dovrà pure accettare la tua presenza... e andremo tutti e tre a Varsailles».
La vide guardarlo quasi con speranza. Quindi l’ira prevalse ed ella disse: «Che idea assurda... tua moglie ha pur detto chiaramente che non desiderava la mia presenza... non ho l’abitudine di andare dove non sono gradita ».
Marcello rispose semplicemente: «Ebbene io desidero che tu venga».
« Si, ma tua moglie no ».
« Che t’importa di mia moglie? Non ti basta che ci amiamo noi due? »
Inquieta, diffidente, ella lo considerava tirando indietro il capo, il petto gonfio e morbido premuto contro il suo. « Ma davvero... parli del nostro amore come se fossimo amanti da chissà quanto tempo... ma credi che ci amiamo sul serio? »
Marcello avrebbe voluto dirle: «Perché non mi ami? Io ti amerei tanto». Ma le parole gli morivano sulle labbra, come echi soffocati da una lontananza invalicabile. Mai gli pareva di averla tanto amata quanto adesso che, sforzando la finzione fino alla parodia, ella gli domandava falsamente se fosse sicuro di amarla. Disse alla fine con tristezza: «Tu sai che io vorrei che ci amassimo».
« Anch’io », ella rispose distrattamente; ed era chiaro che pensava a Giulia. Soggiunse, poi, come svegliandosi alla realtà, con rabbia improvvisa : « Ad ogni modo ti prego di non baciarmi più in macchina o in altri simili luoghi... non ho mai potuto soffrire questo genere di effusioni... mi sembrano una mancanza di riguardo e anche di educazione».
« Tu però », egli proferì stringendo i denti, « non mi hai ancora detto se verrai domani a Versailles ».
La vide esitare e quindi domandare, sperduta: « Pensi veramente che tua moglie non si irriterà vedendomi arrivare... non mi insulterà come ha fatto oggi al ristorante? »
« Sono sicuro di no... sarà forse un poco sorpresa... ecco tutto... ma prima che tu venga penserò io a persuaderla ».
« Lo farai? »
« Si ».
« Ho l’impressione che tua moglie non possa soffrirmi », ella disse in tono interrogativo come aspettandosi di essere rassicurata.
« Ti sbagli », egli rispose venendo incontro a quel suo desiderio cosi scoperto, « ha invece molta simpatia per te».
« Veramente? »
« Si, veramente... anche oggi me lo diceva ».
« E che diceva ? »
« Oh Dio, nulla di particolare... che eri bella, che sembravi intelligente... la verità, insomma».
« Allora verrò », ella si decise ad un tratto, « verrò subito dopo la partenza di mio marito... verso le nove... in modo da poter prendere il treno delle dieci... verrò al vostro albergo».
Marcello risenti questa fretta e questo sollievo come un’offesa di più al suo sentimento. E accendendosi improvvisamente di non sapeva che desiderio di un amore purchessia, anche finto ed ambiguo, disse : « Sono tanto contento che tu abbia accettato di venire».
« Si ? »
« Si, perché penso che non l’avresti fatto se tu non mi amassi ».
« Potrei anche averlo fatto per qualche altro motivo », ella rispose con cattiveria.
« Quale ? »
« Noi donne siamo dispettose... unicamente per far dispetto a tua moglie ».
Cosi ella pensava sempre e soltanto a Giulia. Marcello non disse nulla ma, sempre ballando, la guidò verso l’ingresso. Ancora due giravolte e si trovarono davanti il guardaroba, a un passo dalla porta. «Ma dove mi porti ? » ella domandò.
« Senti », supplicò Marcello a bassa voce in modo che la guardarobiera, ritta dietro il suo banco, non udisse, « usciamo un momento in strada ».
« Perché? »
« Non c’è nessuno... vorrei che tu mi dessi un bacio... spontaneamente... per dimostrarmi che mi ami davvero ».
« Non ci penso neppure », ella disse, adirandosi ad un tratto.
« Ma perché... è una strada deserta, buia».
«T’ho già detto che non posso soffrire queste espansioni in pubblico ».
« Ti prego ».
« Lasciami » ella disse con voce dura e alta; e si svincolò, allontanandosi subito verso la sala. Quasi trasportato dal suo slancio, Marcello varcò la soglia e usci nella strada.
La strada era buia e deserta, come egli aveva detto a Lina, nessuno passava per i marciapiedi scarsamente illuminati da rari fanali. Sull’altro lato della strada, sotto il muro di cinta del giardino, stavano allineate alcune macchine. Marcello si tolse di tasca il fazzoletto e si asciugò la fronte sudata, guardando agli alberi fronzuti che spuntavano al di sopra del muro. Provava un senso, di stordimento, come dopo aver ricevuto un colpo secco e forte sulla testa. Non ricordava di aver mai supplicato tanto una donna e quasi si vergognava di averlo fatto. Al tempo stesso si rendeva conto che ogni speranza di piegar Lina nonché ad amarlo ma anche soltanto a comprenderlo, era ormai svanita. In quel momento udì alle spalle il rumore di un motore d’automobile e poi la macchina gli scivolò accanto e si fermò. Era illuminata dentro; e al volante, Marcello vide la figura, proprio da autista di famiglia, dell’agente Orlando. Il compagno di Orlando, dalla faccia lunga e magra di uccello rapace, gli stava allato. «Dottore», disse Orlando con voce bassa.
Macchinalmente Marcello si avvicinò: «Dottore... noi ce ne andiamo... lui parte domani mattina in automobile e noi lo seguiremo... probabilmente però non aspetteremo di esser giunti in Savoia ».
« Perché ? » domandò Marcello quasi senza rendersi conto di quel che dicesse.
« La strada è lunga e la Savoia lontana... perché aspettare la Savoia se si può far prima e in migliori condizioni?... Arrivederci, dottore... Ci rivediamo in Italia». Orlando fece un gesto di saluto e il compagno inclinò appena la testa. La macchina scivolò via, andò in fondo alla strada, girò intorno il cantone e scomparve.
Marcello tornò sul marciapiede, varcò la soglia e rientrò nella sala. La musica era ricominciata nel frattempo ed egli non trovò al tavolo che Quadri. Lina e Giulia ballavano di nuovo insieme, come vide, confuse tra la folla che si addensava sulla pista. Egli sedette, prese il bicchiere ancora pieno di limonata ghiacciata e lo vuotò con lentezza guardando nel fondo al pezzo di ghiaccio. Quadri disse improvvisamente : « Clerici, lei sa che potrebbe esserci molto utile? »
« Non capisco », disse Marcello riposando il bicchiere sul tavolo.
Quadri spiegò, senza alcun imbarazzo: «Ad un altro potrei anche proporre di restare addirittura a Parigi... c’è da fare per tutti, le assicuro... e noi abbiamo soprattutto bisogno di giovani come lei... ma lei potrebbe esserci anche più utile proprio restando dove si trova adesso... al suo posto».
« Dandovi delle informazioni», fini Marcello guardandolo negli occhi.
« Precisamente ».
A queste parole, Marcello non potè fare a meno di ricordare gli occhi lustri di commozione, quasi lacrimosi, sinceramente affettuosi di Quadri, poco prima, mentre lo stringeva per i baveri della giacca. Era, quella commozione, come pensò, il velluto sentimentale in cui erano dissimulati gli artigli del freddo calcolo politico. La stessa commozione, pensò ancora, che aveva osservato negli occhi di certi suoi superiori, seppure di qualità diversa, patriottica invece che umanitaria. Ma che importavano questi sentimenti giustificativi, se poi, in ambedue i casi, in tutti i casi, non allignava alcuna considerazione per lui, per la sua persona umana, intesa disinvoltamente come un mezzo tra i tanti per raggiungere certi fini? Pensò, con quasi burocratica indifferenza, che Quadri, con quella sua richiesta, aveva controfirmata la propria condanna a morte. Quindi levò gli occhi e disse : « Lei parla come se io avessi le sue stesse idee... o fossi in procinto di averle... se cosi fosse, io stesso le avrei offerto i miei servizi... ma stando le cose come stanno, e cioè non avendo io né volendo avere le sue idee, lei mi chiede semplicemente un tradimento ».
« Un tradimento mai », disse Quadri con prontezza, « per noi non esistono traditori... esistono soltanto persone che si accorgono dei loro errori e si ravvedono... io ero e sono tuttora convinto che lei è una di tali persone».
« Lei si sbaglia».
« Sia come non detto, allora, sia come non detto. signorina ». Frettolosamente, forse per nascondere il disappunto, Quadri chiamò una delle cameriere e pagò il conto. Poi tacquero, Quadri guardando la sala, in atteggiamento di sereno spettatore, Marcello seduto
con le spalle alla sala, gli occhi rivolti in basso. Finalmente egli senti una mano posarsi sulla sua spalla e la voce lenta e calma di Giulia dire : « Allora vogliamo andare? Sono tanto stanca... ».
Marcello si alzò subito dicendo : « Credo che siamo tutti d’accordo nell’aver sonno ». Gli parve che Lina avesse in viso un’espressione stravolta e un pallore intenso ma attribuì la prima alla stanchezza della serata e la seconda alla luce livida del neon. Uscirono e andarono alla macchina, in fondo alla strada. Marcello finse di non udire la moglie che gli sussurrava « mettiamoci come prima », e sali decisamente accanto a Quadri. Per tutta la durata del tragitto nessuno dei quattro parlò. Soltanto Marcello, a metà strada, disse a caso : « Ma quanto tempo ci metterà per arrivare in Savoia? »; e Quadri, senza voltarsi, rispose: «È una macchina veloce e siccome sarò solo e non avrò da fare altro che correre, penso che arriverò ad Annecy a notte... il giorno dopo ripartirò all’alba... ».
Davanti all’albergo, discesero dalla macchina e si salutarono. Quadri, dopo aver stretto in fretta la mano a Marcello e a Giulia, tornò alla macchina. Lina si trattenne un momento a dire qualche cosa a Giulia e poi Giulia la salutò ed entrò nell’albergo. Per un istante rimasero soli Lina e Marcello, sul marciapiede. Egli disse con impaccio : « Allora, a domani ». « A domani », echeggiò la donna, inclinando il capo in un sorriso mondano. Quindi gli voltò le spalle; ed egli raggiunse Giulia nell’atrio.
 
Alberto Moravia
Il conformista