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Alberto Moravia - Il conformista

PARTE SECONDA / CAPITOLO SESTO (cont.)
Ma il vecchio non si accorse della restituzione, non si occupava più di lui. Marcello lo vide aprire il pacchetto che gli aveva dato l’autista e trarne un panino. Lo ruppe piano e laboriosamente, con le mani tremanti, e gettò due o tre molliche in terra. Subito, da uno degli alberi fronzuti che ombreggiavano la panchina, volò a terra un grosso passero pasciuto e familiare. Zampettando, andò alla mollica, girò la testa due o tre volte a guardarsi intorno poi afferrò la briciola col becco e prese a divorarla. Il vecchio gettò altre tre o quattro molliche e altri passeri volarono giù dai rami degli alberi sul marciapiede. La sigaretta accesa tra le labbra, gli occhi socchiusi, Marcello osservava la scena. Il vecchio sebbene stesse curvo e avesse le mani tremanti, serbava davvero qualcosa dell’adolescente, o meglio non era necessario un grande sforzo per immaginarlo adolescente. Di profilo, la bocca rossa e capricciosa, il naso dritto e grande, i capelli biondi ricadenti con una ciocca quasi monellesca sulla fronte, facevano anzi pensare che fosse stato un adolescente assai leggiadro; forse uno di quegli atleti nordici che uniscono la grazia della fanciulla alla forza virile. Piegato su se stesso, la testa pensosamente inchiodata sul petto, egli sbriciolò ai passeri tutto il panino; quindi, senza muoversi né voltarsi, sempre in francese, domandò: «Di che paese siete? »
« Italiano », rispose brevemente Marcello.
« Come ho fatto a non pensarlo ? » esclamò il vecchio dandosi, con una sua bizzosa vivacità, un gran colpo sulla fronte. « Mi domandavo appunto dove avevo potuto vedere un viso come il vostro, cosi perfetto... stupido, che diamine, in Italia... e come vi chiamate? »
« Marcello Clerici », rispose Marcello dopo un momento di esitazione.
« Marcello », ripetè il vecchio levando il viso e guardando davanti a sé. Segui un lungo silenzio. Il vecchio pareva riflettere; o meglio, come pensò Marcello, pareva sforzarsi di ricordare qualche cosa. Finalmente, con aria trionfante, si voltò verso Marcello e recitò : « Heu miserande puer, si qua fata aspera rumpas, tu Marcellus eris ».
Erano versi che Marcello conosceva bene, per averli tradotti a scuola e anche perché, allora, gli avevano attirato gli scherzi dei compagni. Ma detti in quel momento, dopo l’offerta del pacchetto di sigarette, quei versi famosi gli diedero un senso spiacevole di goffa lusinga.
Questo senso si cambiò in irritazione, come vide il vecchio lanciargli un’occhiata riassuntiva, dalla testa ai piedi, e, poi, informarlo : « Virgilio ».
« Si, Virgilio », ripetè seccamente, « e voi di che paese siete? »
« Sono britanno » disse il vecchio parlando ad un tratto, bizzarramente, in un italiano aulico e, forse, ironico. Quindi, ancor più bizzarramente, mescolando il napoletano all’italiano : « Aggio vissuto a Napoli molti anni... sei napoletano? »
« No », disse Marcello sconcertato da quel "tu" improvviso. Adesso i passeri, divorate le molliche, erano rivolati via; qualche passo più in là, presso il marciapiede, la Rolls Royce stava ferma, aspettando. Il vecchio afferrò il bastone e si alzò in piedi a fatica, dicendo a Marcello in tono di comando, questa volta in francese : « Volete accompagnarmi alla macchina?... Vi dispiace darmi il braccio? »
Meccanicamente, Marcello porse il braccio. Il pacchetto di sigarette era rimasto sulla panchina, là dove egli l’aveva posato. « Dimenticate le sigarette », disse il vecchio designando l’oggetto con la punta del bastone. Marcello finse di non aver udito e mosse il primo passo verso la macchina. Questa volta il vecchio non insistette e si avviò con lui.
Il vecchio camminava piano, più piano assai di quando, poco prima, aveva camminato solo; e con la mano si appoggiava al braccio di Marcello. Ma questa mano non stava ferma: andava su e giù per il braccio del giovane con una carezza già possessiva. Marcello si senti ad un tratto mancare il cuore e levando gli occhi comprese perché: la macchina era là, che li aspettava entrambi ed egli, come capi, sarebbe stato invitato a salirvi, come tanti anni prima. Ma ciò che lo atterriva di più era di sapere che non avrebbe rifiutato l’invito. Con Lino vi era stato, oltre al desiderio della pistola, una specie di inconsapevole civetteria; con costui, come si rese conto con stupore, quasi la memore soggezione di chi, avendo soggiaciuto già una volta in passato ad una oscura tentazione, colto di sorpresa, dopo molti anni, dalla stessa insidia, non trovi ragione di resistervi. Come se Lino avesse fatto il piacer suo con lui, pensò; come se egli, in realtà, non avesse resistito a Lino e non l’avesse ucciso. Questi pensieri furono oltremodo rapidi, quasi più illuminazioni che pensieri. Poi levò gli occhi e vide che erano giunti davanti la macchina. L’autista era disceso e aspettava presso lo sportello aperto, il berretto in mano.
Il vecchio, senza lasciargli il braccio, disse: «Allora volete salire? »
Marcello rispose subito, contento della propria risolutezza : « Grazie ma debbo andare al mio albergo... mia moglie mi aspetta».
« Poverina », disse il vecchio con una maliziosa familiarità, « fatela aspettare un poco... le farà bene ».
Cosi bisognava spiegarsi, pensò Marcello. Disse: « Non ci siamo capiti ». Esitò, poi colse con la coda dell’occhio un giovane vagabondo che si era fermato presso la panchina sulla quale era restato il pacchetto delle sigarette e soggiunse : « Io non sono quello che credete... per voi forse ci vorrebbe quello li»; e indicò il vagabondo che, in quel momento, con gesto veloce, intascava furtivamente il pacchetto. Il vecchio guardò anche lui, sorrise e rispose con una sua scherzosa sfrontatezza : « Di quelli ne ho finché ne voglio ».
« Mi dispiace », disse freddamente Marcello del tutto rinfrancato; e fece per avviarsi. Il vecchio lo trattenne : « Almeno permettete che vi accompagni... ».
Marcello esitò, guardò l’orologio: «Va bene, accompagnatemi... poiché vi fa piacere».
« Mi fa molto piacere ».
Salirono, prima Marcello e poi il vecchio. L’autista chiuse lo sportello, sali in fretta al suo posto. « Dove ? » domandò il vecchio.
Marcello disse il nome dell’albergo; il vecchio, rivolto all’autista, disse qualche cosa in inglese. La macchina parti.
Era una macchina silenziosa e molleggiata, come notò Marcello, mentre l’automobile correva rapidamente, tacitamente sotto gli alberi delle Tuileries, in direzione di piazza della Concordia. L’interno era foderato di feltro grigio; un vaso da fiori di cristallo di una foggia antiquata, fissato presso lo sportello, conteneva alcune gardenie. Il vecchio dopo un momento di silenzio, si voltò verso Marcello e disse: « Scusatemi per quelle sigarette... vi avevo scambiato per un povero ».
« Non importa », rispose Marcello.
Il vecchio tacque ancora un poco e poi riprese: « Mi sbaglio raramente... avrei giurato che voi... ne ero cosi sicuro che quasi mi vergognai di ricorrere al pretesto delle sigarette... ero convinto che sarebbe bastato uno sguardo».
Parlava con disinvoltura cinica, lieta, civile; e si capiva che tuttora considerava Marcello un invertito. Questo suo tono di complicità era cosi autorevole che Marcello fu quasi tentato di compiacerlo e di rispondergli: «Si forse, avete ragione, lo sono... senza saperlo, mio malgrado... e ne ho avuto la conferma accettando di salire nella vostra macchina». Invece disse seccamente: « Vi eravate sbagliato: ecco tutto ». « Già ».
La macchina adesso girava intorno l’obelisco di piazza della Concordia. Poi si fermò bruscamente di fronte al ponte. Il vecchio disse : « Sapete che cosa me lo fece pensare? »
« Che cosa? »
« I vostri occhi... cosi dolci, cosi carezzevoli nonostante si sforzino di parere corrucciati... essi parlano vostro malgrado».
Marcello non disse nulla. La macchina dopo una breve sosta, riprese la corsa, passò il ponte, e invece di prendere per il lungosenna si addentrò per le vie dietro la Camera dei Deputati. Marcello trasali, si voltò verso il vecchio: «Ma il mio albergo è sulla Senna ».
« Andiamo a casa mia », disse il vecchio, « non volete venire a bere qualche cosa? Vi tratterrete un poco e poi tornerete da vostra moglie ».
Tutto ad un tratto parve a Marcello di riprovare lo stesso senso di umiliazione e di furore impotente, di quando, tanti anni prima, i compagni gli avevano affibbiato una gonna al grido canzonatorio di « Marcellina». Come i compagni, il vecchio non credeva alla sua virilità; come i compagni si ostinava a considerarlo una specie di femmina. Disse a denti stretti : « Vi prego di portarmi all’albergo ».
« Ma via... che vi fa?... Un solo momento ».
« Sono salito soltanto perché ero in ritardo e mi faceva comodo che mi accompagnaste... adesso accompagnatemi ».
« Strano, avevo creduto che, invece, voleste farvi rapire... siete tutti cosi, avete bisogno che vi si usi violenza ».
« Vi assicuro che vi sbagliate adottando questo tono con me... non sono affatto quello che credete... ve l’ho già detto, ve lo ripeto ».
« Come siete sospettoso... non credo nulla... via, non guardatemi in quel modo ».
« L’avete voluto » disse Marcello; e portò la mano alla tasca interna della giacca. Partendo da Roma, aveva preso una piccola pistola; e, invece di lasciarla nella valigia, per non insospettire Giulia, la teneva sempre con sé. Trasse di tasca l’arma e la puntò discretamente, in modo che l’autista non potesse vederla, in direzione della giubba del vecchio. Costui lo considerava con aria di affettuosa ironia; poi abbassò gli occhi. Marcello lo vide farsi serio, improvvisamente, in un’espressione perplessa e quasi incomprensiva. Disse: « Avete visto? E ora ordinate al vostro autista di portarmi all’albergo».
Subito, il vecchio afferrò il portavoce e gridò il nome dell’albergo di Marcello. La macchina rallentò, deviò in una strada trasversale. Marcello ripose in tasca la rivoltella e disse: «Ora sta bene».
Il vecchio non disse nulla. Adesso pareva essersi riavuto dalla sorpresa e guardava attentamente Marcello, come studiandone il viso. La macchina sbucò sul lungosenna, prese a correre lungo i parapetti. Marcello riconobbe, ad un tratto, l’ingresso dell’albergo, con la porta a tamburo sotto la pensilina di vetro. La macchina si fermò.
« Permettete che vi offra questo fiore », disse il vecchio togliendo dal vaso una gardenia e porgendola. Marcello esitò e il vecchio soggiunse : « Per vostra moglie».
Marcello prese il fiore, ringraziò e saltò fuori della macchina, davanti all’autista che aspettava a testa nuda, presso lo sportello aperto. Gli parve di udire, o forse fu un’allucinazione, la voce del vecchio che lo salutava: «Addio Marcello», in italiano. Senza voltarsi, stringendo la gardenia tra due dita, penetrò nell’albergo.
 
Alberto Moravia
Il conformista