ÈÒÀËÜßÍÑÊÈÉ ßÇÛÊ
Alberto Moravia - Il conformista
PROLOGO / CAPITOLO TERZO
Questa volta alzò gli occhi e guardò in viso l’uomo. Era vero, Lino gli era antipatico, pensò, ma non si era mai domandato perché. Guardò il viso, quasi ascetico nella sua magrezza severa, e allora comprese perché non aveva simpatia per Lino: perché, come pensò, era un viso doppio, in cui la frode trovava addirittura un’espressione fisica. Gli sembrò, guardandolo, di ravvisare questa frode soprattutto nella bocca: sottile, secca, sdegnosa, casta, a prima vista; ma poi, se un sorriso ne disserrava e rovesciava le labbra, lustra sulla erta e infuocata mucosa di non sapeva che vogliosa acquolina. Esitò guardando Lino che sorridendo aspettava la sua risposta, e poi disse sinceramente : « Mi sei antipatico perché hai la bocca bagnata ».
Il sorriso di Lino scomparve, egli si rabbuiò: «Che
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sciocchezze inventi adesso?...» e poi subito riprendendosi, con disinvoltura scherzosa : « Allora signor Marcello... vuol salire nella sua macchina? »
«Salgo», disse Marcello decidendosi finalmente, « soltanto a un patto ».
« Quale ? »
« Che mi dai veramente la rivoltella ».
«Intesi... vieni, su».
« No, devi darmela adesso, subito », insistette Marcello ostinato.
« Ma non ce l’ho qui Marcello», disse l’uomo con sincerità, «è rimasta sabato in camera mia... adesso andiamo a casa e la prendiamo ».
« Allora non vengo », si decise Marcello in una maniera inaspettata anche per lui, « arrivederci ».
Mosse un passo come per andarsene; e questa volta Lino perse la pazienza. « Ma vieni, non fare il bambino », esclamò. Sporgendosi, afferrò Marcello per un braccio e lo attirò sul sedile accanto a lui. « Adesso andiamo subito a casa », soggiunse, « e ti prometto che avrai la rivoltella... ». Marcello, contento, in fondo, di esser stato costretto con la violenza a salire nella macchina, non protestò, limitandosi ad atteggiare il viso ad un broncio puerile. Lino, alacremente, chiuse lo sportello, accese il motore; e la macchina parti.
Per un lungo momento non parlarono. Lino non pareva loquace, forse, come pensò Marcello, era troppo contento per parlare; quanto a lui, non aveva nulla da dire: adesso Lino gli avrebbe dato la rivoltella e poi egli sarebbe tornato a casa e il giorno dopo avrebbe portato la rivoltella a scuola e l’avrebbe mostrata a Turchi. Piu in là di queste semplici e piacevoli previsioni il suo pensiero non andava. Solo timore era che Lino volesse in qualche modo frodarlo.
In tal caso, come pensò, avrebbe inventato qualche altra malizia per spingere Lino alla disperazione e costringerlo a mantenere la promessa.
Fermo, il pacco dei libri sulle ginocchia, egli guardò sfilare i grandi platani e i casamenti fino in fondo al viale. Come la macchina attaccò la salita, Lino quasi a conclusione di una lunga riflessione domandò : « Ma chi ti ha insegnato a essere cosi civetta, Marcello ».
Marcello, non ben sicuro del significato della parola, esitò prima di rispondere. L’uomo parve accorgersi della sua innocente ignoranza e soggiunse: «Voglio dire cosi furbo».
« Perché ? » domandò Marcello.
« Cosi ».
«Sei tu il furbo», disse Marcello, «che mi prometti la rivoltella e non me la dài mai ».
Lino rise e con una mano andò a battere sul ginocchio nudo di Marcello : « Si, oggi sono io il furbo ». Marcello mosse il ginocchio, imbarazzato. Lino soggiunse, sempre tenendogli la mano sul ginocchio, con voce esultante : « Lo sai Marcello che sono tanto contento che tu sia venuto oggi... quando penso che l’altro giorno ti pregai di non darmi retta e di non venire, mi rendo conto quanto si possa esser sciocchi qualche volta... davvero sciocchi... ma per fortuna tu hai avuto piu buon senso di me, Marcello ».
Marcello non disse nulla. Non capiva troppo bene quello che gli diceva Lino e, d’altra parte, quella mano posata sul ginocchio gli dava fastidio. Aveva cercato piu volte di smuovere il ginocchio ma la mano non era stata tolta. Per fortuna, ad una svolta, ecco una macchina venire incontro. Marcello finse di spaventarsi, esclamò: «Attento, quella macchina
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ci viene addosso » ; e questa volta Lino ritirò la mano per girare il volante. Marcello respirò.
Ecco la strada di campagna, tra le mura di cinta e le siepi; ecco il portale con il cancello dipinto di verde; ecco il viale di accesso, fiancheggiato di piccoli cipressi spennacchiati e, in fondo, il luccichio dei vetri della veranda. Marcello notò che, come l’altra volta, il vento tormentava i cipressi, sotto uno scuro cielo temporalesco. La macchina si fermò, Lino balzò a terra e aiutò Marcello a discendere, avviandosi, poi. con lui, verso il porticato. Questa volta Lino non lo precedeva ma lo teneva per un braccio, forte, quasi avesse temuto che egli volesse scappare. Marcello avrebbe voluto dirgli di allentare quella stretta ma non fece a tempo. Come volando, tenendolo quasi sollevato da terra per il braccio, Lino gli fece attraversare la sala di soggiorno e lo spinse dentro il corridoio. Qui, in una maniera inaspettata, l’afferrò al collo, duramente, dicendo : « Stupido che sei... stupido... perché non volevi venire? »
La voce non era più scherzosa ma roca c rotta seppure meccanicamente tenera. Marcello stupito fece per levare gli occhi e guardare in faccia a Lino: ma, nello stesso tempo, ricevette una spinta violenta. Come si getta lontano un gatto o un cane dopo averlo afferrato per la collottola, Lino l’aveva lanciato dentro la camera. Poi Marcello lo vide girare la chiave nella serratura, intascarla e voltarsi verso di lui con un’espressione mischiata di gioia e di rabbioso trionfo. Egli gridò forte: «Adesso basta... tu farai quello che vorrò io... basta Marcello, tiranno, piccola carogna, basta... fila dritto, ubbidisci e non una parola di più». Pronunziava queste parole di comando, di disprezzo e di dominio con una gioia selvaggia, quasi con voluttà; e Marcello, per quanto
confuso, non potè fare a meno di avvertire che erano parole senza senso, piuttosto strofe di un canto trionfale, che espressioni di un pensiero e di una volontà consapevoli. Spaventato, attonito, vide Lino andare e venire per la cameretta, a gran passi, togliendosi il berretto dal capo e gettandolo sul davanzale; facendo una palla di una camicia appesa su una seggiola e chiudendola in un cassetto; spianando la coperta spiegazzata, e compiendo, insomma, altrettanti gesti pratici con una furia piena di oscuro significato. Poi lo vide, sempre gridando all’aria quelle sue incoerenti frasi di prepotenza e di imperio, avvicinarsi alla parete, sopra il capezzale, staccarne il crocifisso, andare all’armadio c gettarlo in fondo al cassetto con ostentata brutalità; e comprese che, con quel gesto, in qualche modo, Lino voleva dare a vedere di aver messo da parte gli ultimi scrupoli. Come a confermarlo in questo timore, Lino trasse dal cassetto del comodino la rivoltella tanto desiderata e mostrandogliela gridò: «La vedi... ebbene non l’avrai mai... dovrai fare quello che voglio io senza regali, senza rivoltelle... per amore o per forza».
Cosi era vero, pensò Marcello, Lino voleva frodarlo, come aveva temuto. Senti di diventare bianco in viso per l’ira; e disse: « Dammi la rivoltella o me ne vado ».
« Niente, niente... o per amore o per forza ». Lino brandiva tuttora la rivoltella in una mano; con l’altra afferrò Marcello per un braccio c lo scagliò sul letto. Marcello cadde a sedere, ma con tanta violenza che sbatte la testa contro il muro. Subito Lino, passando improvvisamente dalla violenza alla dolcezza e dal comando alla supplica, gli si inginocchiò davanti. Gli circondava le gambe con un braccio c posava l’altra mano, che stringeva tuttora l’ar77
ma, sulla coperta del letto. Gemeva e invocava Marcello per nome; quindi, sempre gemendo, gli cinse con ambedue le braccia le ginocchia. La rivoltella adesso era sul letto, abbandonata, nera sulla coperta bianca. Marcello guardò Lino inginocchiato che ora alzava verso di lui il viso supplichevole, bagnato di lagrime e infiammato di desiderio e ora lo abbassava a strofinarglielo contro le gambe come fanno col muso certi cani devoti; poi impugnò la rivoltella e, con una spinta forte, si levò in piedi. Subito Lino, forse pensando che egli volesse secondare il suo amplesso, apri le braccia e lo lasciò andare. Marcello fece un passo nel mezzo della stanza, e poi si voltò.
Più tardi, pensando a quanto era accaduto, Marcello doveva ricordare che il solo contatto del calcio freddo dell’arma aveva destato nel suo animo una tentazione spietata e sanguinaria; ma in quel momento non avvertiva che un forte dolore alla testa, là dove l’aveva sbattuta contro la parete; e al tempo stesso un’irritazione, una ripugnanza acuta verso Lino. Questi era rimasto in ginocchio presso il letto; ma come vide Marcello fare un passo indietro e puntare la rivoltella, si girò alquanto, pur senza alzarsi; e spalancando le braccia, con un gesto teatrale, gridò istrionescamente: «Spara, Marcello... ammazzami... si, ammazzami come un cane ». Sembrò a Marcello di non averlo mai odiato come adesso, per quél suo miscuglio ripugnante di sensualità e di austerità, di pentimento e di libidine; e, insieme atterrito e consapevole, quasi parendogli di dover compiacere la richiesta dcH’uomo, premette il grilletto. Il colpo echeggiò di schianto nella piccola camera; c lui vide Lino cadere di fianco e poi rialzarsi, mostrandogli la schiena e aggrappandosi con le due mani al
bordo del Jetto. Lino si tirò su pian piano, cadde di fianco sul letto e rimase immobile. Marcello gli si avvicinò, posò la rivoltella sul capezzale, chiamò a bassa voce « Lino » e poi, senza aspettar risposta, andò alla porta. Ma era chiusa e la chiave, come ricordò, Lino l’aveva tolta dalla toppa e messa in tasca. Esitò, gli ripugnava di frugare nelle tasche del morto; quindi gli occhi gli caddero sulla finestra e rammentò che era a pianterreno. Scavalcando la finestra, girò in fretta il capo gettando un lungo sguardo circospetto e pieno di paura allo spiazzo e all’automo- bile ferma davanti al porticato: capiva che se qualcuno fosse passato in quel momento, l’avrebbe visto a cavalcioni sopra il davanzale; e tuttavia non c’era altro da fare. Ma non c’era nessuno, c, al di là dei radi alberi che circondavano lo spiazzo, anche la campagna brulla e collinosa appariva deserta a perdita d’occhio. Egli discese dal davanzale, prese il pacco dei libri dal sedile della macchina e si incamminò senza fretta verso il cancello. Nella sua coscienza, come in uno specchio, si rifletteva tutto il tempo, mentre camminava, l’immagine di se stesso, ragazzo in pantaloni corti, i libri sotto il braccio, nel viale fian- cheggiato di cipressi, figura incomprensibile e piena di sbigottito presagio.