Alberto Moravia - Il conformista PROLOGO / CAPITOLO TERZO |
Ogni mattina Marcello veniva svegliato, a ora fissa, dalla cuoca che
aveva un’affezione particolare per lui. Ella entrava al buio nella
camera portando il vassoio della colazione che andava a posare sul marmo
del cassettone. Poi, Marcello la vedeva appendersi con le due braccia
alla corda della persiana e tirarla su con due o tre spinte della
persona robusta. Ella gli metteva il vassoio sulle ginocchia e assisteva
in piedi alla colazione, pronta, appena egli avesse finito, a gettargli
via le coperte e a incitarlo a vestirsi. Lei stessa lo aiutava
porgendogli i panni, talvolta inginocchiandosi a calzargli le scarpe.
Era una donna vivace, allegra, e piena di buon senso; della provincia in
cui era nata conservava l’accento e le affettuose abitudini. Il lunedi,
Marcello si destò con il confuso ricordo di avere udito la sera avanti,
mentre si addormentava, uno scoppio di voci irate non sapeva bene se al
pianterreno o nella camera dei genitori. Aspettò di aver consumato la
colazione e poi domandò casualmente alla cuoca, che, al solito,
attendeva in piedi che avesse finito : « Che è successo stanotte ? » La donna lo guardò con finto ed esagerato stupore : « Che io sappia, nulla ». 63 Marcello capi che ella aveva qualche cosa da dire: il falso stupore, lo scintillio malizioso degli occhi, tutto Patteggiamento lo denotavano. Disse : « Ho sentito gridare... ». « Ah, i gridi », disse la donna, « ma questo è normale... non lo sapevi che il tuo papà e la tua mamma gridano spesso? » « Si », disse Marcello, « ma gridavano più forte del solito». Ella sorrise e, appoggiandosi con le due mani alla spalliera del letto, disse: «Almeno, gridando, si saranno capiti meglio, non credi?» Era questo uno dei suoi vezzi : far delle domande che non aspettavano risposta, affermative. Marcello domandò : « Ma perché hanno gridato ? » La donna sorrise di nuovo : « Perché gridano le persone? Perché non vanno d’accordo». «E perché non vanno d’accordo?» «Loro?» ella gridò felice di queste domande del ragazzo. « Oh, per mille motivi... magari un giorno perché la tua mamma vorrebbe dormire con la finestra aperta e il tuo papà non vuole... un altro gior- no perché a lui gli piace andar a letto presto e invece alla tua mamma piace far tardi... i motivi non mancano mai, no? » Marcello disse ad un tratto, con gravità e convinzione, come esprimendo un suo antico sentimento: « Io non ci vorrei più stare qui ». «E che vorresti fare?» gridò la donna sempre più allegra. « Tu sei piccolo, non puoi mica andare via di casa... devi aspettare di essere grande ». «Preferirei», disse Marcello, «che mi mettessero in un collegio ». La donna lo guardò intenerita e gridò : « Hai ragione... in un collegio avresti almeno chi penserebbe 64 a te... lo sai perché hanno gridato tanto stanotte tuo papà e tua mamma? » « No, perché? » « Aspetta, che ti faccio vedere ». Sollecita, ella andò alla porta e scomparve. Marcello l’udi scendere a precipizio giu per la scala e si domandò una volta di piu che cosa avesse potuto succedere la notte avanti. Di li ad un momento, senti la cuoca risalire la scala; poi ella entrò nella camera con aria di allegro mistero. Teneva in mano un oggetto che Marcello subito riconobbe: una grande fotografia con la cornice d’argento che di solito stava sul pianoforte, nel salotto. Era una vecchia fotografia, fatta quando Marcello aveva poco più di due anni. Vi si vedeva la madre di Marcello, vestita di bianco, con in braccio il figlio, anche lui in una vesticciola bianca, un fiocco bianco sui capelli lunghi. « Vedi questa fotografia », gridò la cuoca gioiosa, « la tua mamma, ierisera, tornando dal teatro, è entrata nel salotto e la prima cosa che ha veduto, sul pianoforte, è stata questa fotografia... poveretta, per poco non è svenuta... guarda un po’ che gli ha fatto a questa fotografia il tuo papà». Marcello stupito guardò la fotografia. Qualcuno con la punta di un temperino o di un punteruolo aveva forato gli occhi cosi alla madre come al figlio e poi, col lapis rosso, aveva segnato tanti piccoli tratti sotto gli occhi ad ambedue, come a indicare lagrime sanguigne sgorganti dai quattro fori. La cosa era cosi strana e inaspettata e insieme oscuramente funesta che Marcello per un momento non seppe che pensare. « È il tuo papà che ha fatto questo », gridò la cuoca, «e la tua mamma aveva ragione di gridare ». « Ma perché l’ha fatto? » S - Il conformisti. 65 «È una fattura, lo sai che cos’è una fattura? » « No ». « Quando si vuol male a qualcuno... si fa quello che ha fatto il tuo papà... qualche volta invece di bucare gli occhi, si buca il petto... in direzione del cuore... e poi qualche cosa succede ». « Che cosa? » « La persona muore... oppure gli succede una disgrazia... dipende ». « Ma io », balbettò Marcello, « non ho fatto niente di male a papà ». « E la tua mamma allora che gli ha fatto? » gridò la cuoca indignata. «Ma sai che cos’è il tuo papà? Matto... e sai dove finirà? A sant’Onofrio, alla casa dei matti... e adesso su, vestiti, è ora che vai a scuola... io vado a riporre questa fotografia ». Tutta allegra, ella corse via, c Marcello rimase solo. Impensierito, incapace di spiegarsi in alcun modo l’incidente della fotografia, riprese a vestirsi. Non aveva mai provato per il padre alcun sentimento particolare e l’ostilità di lui, vera o falsa che fosse, non lo addolorava; ma le parole della cuoca circa i malefici poteri della fattura gli davano da pensare. Non che fosse superstizioso e credesse veramente che bastasse bucare gli occhi ad una fotografia per far del male alla persona fotografata; ma questa follia del padre ridestava in lui un’apprensione che si era illuso di avere definitivamente sopita. Era il senso spaurito c impotente di essere entrato nel cerchio di una fatalità funesta che l’aveva ossessionato per tutta l’estate, e che, adesso, come al richiamo di una malefica simpatia, di fronte a quella fotografia macchiata di lagrime sanguigne, si ridestava nel suo animo, piu forte che mai. Cos’era la disgrazia, si domandò, cos’era se non 66. il punto nero sperduto nell’azzurro dei cieli piu sereni, che, tutto ad un tratto, ingrandisce, diventa uc- cellaccio spietato e piomba addosso al disgraziato come un avvoltoio sulla carogna? Oppure la trappola di cui si è avvertiti e che, anzi, si vede distintamente e nella quale, tuttavia, non si può fare a meno di mettere il piede? Oppure, addirittura, una maledizione di goffaggine, di imprudenza e di cecità insinuata nei gesti, nei sensi, nel sangue? Quest’ultima definizione gli sembrò la più appropriata, come quella che riconduceva la disgrazia ad una mancanza, appunto, di grazia e la mancanza di grazia ad una fatalità intima, oscura, nativa, imperscrutabile, sulla quale il gesto del padre, come un’indicazione all’imboccatura di una strada funesta, aveva richiamato di nuovo la sua attenzione. Egli sapeva che questa fatalità voleva che egli uccidesse; ma ciò che lo spaventava di piu non era tanto l’omicidio quanto di esservi predestinato, qualunque cosa facesse. Lo atterriva, insomma, l’idea che persino la consapevolezza di tale fatalità non fosse che una spinta di più a soggiacervi; come se invece che consapevolezza fosse stata ignoranza; ma un’ignoranza di un genere particolare che nessuno avrebbe potuto riputare tale; e lui meno degli altri. Ma più tardi, a scuola, con puerile volubilità, dimenticò improvvisamente questi suoi presentimenti. Egli aveva per compagno di banco uno dei suoi tormentatori, un ragazzo a nome Turchi, il più vecchio e insieme il più ignorante della classe. Era il solo che, per aver preso alcune lezioni di pugilato, sapesse tirar pugni a regola d’arte: il suo viso duro e angoloso dai capelli tagliati a spazzola, dal naso camuso e dalle labbra sottili, affondato in un maglione da atleta, pareva già quello di un pugilista di 67 professione. Turchi non capiva nulla di latino; ma quando nei crocchi, fuori del ginnasio, per strada, alzando una mano nodosa a togliersi di bocca una piccolissima cicca e aggrottando le molte rughe della fronte bassa in uno sguardo di autorità sufficiente, dichiarava : « Per me, al campionato vincerà Colucci », tutti i ragazzi ammutolivano, pieni di rispetto. Turchi che aH’occorrenza poteva dimostrare, prendendosi il naso tra due dita e spostandolo da una parte, di avere il setto nasale rotto come i veri pugilisti, non si occupava soltanto di pugni ma anche di pallone e di qualsiasi altro sport popolare e violento. Verso Marcello, Turchi manteneva un contegno sarcastico, quasi sobrio nella sua brutalità. Era stato appunto Turchi, due giorni prima, a tenere le braccia a Marcello mentre gli altri quattro gli infilavano la gonnella; e Marcello, che se ne ricordava, credette quel mattino di aver finalmente trovato una via per conquistare quella sdegnosa e inaccessibile stima. Approfittando di un momento che il professore di geografia si voltava a indicare con un suo lungo bastone la carta d’Europa, egli scrisse in fretta su un quaderno: « Oggi avrò una rivoltella vera», e poi spinse il quaderno verso Turchi. Costui, nonostante la sua ignoranza, era però, per quanto riguardava la condotta, un alunno modello. Sempre attento, immobile, quasi tetro nella sua inespressiva e melensa serietà, la sua incapacità, ogni volta che era interrogato, di rispondere alle più semplici domande mcra- gliava profondamente Marcello il quale si domandava spesso che cosa mai pensasse durante le lezioni e perché, se non studiava, fingesse tanta diligenza. Ora come Turchi ebbe veduto il quaderno, fece un gesto impaziente, quasi a dire : « Lasciami in pace,... non vedi che sto ascoltando la lezione? » Ma Marcello in- .68 sistettc con una gomitata; c, allora, Turchi, senza muovere la testa, abbassò gli occhi a leggere la scritta. Marcello lo vide prendere una matita e scrivere a sua volta: « Non ci credo ». Punto sul vivo, si affrettò a confermare, sempre scrivendo : « Parola d’onore». Turchi diffidente ribattè: «Che marca è». Questa domanda sconcertò Marcello; tuttavia dopo un momento di esitazione, rispose: «Una Wilson». Egli confondeva con Weston, nome che aveva sentito fare appunto da Turchi, qualche tempo addietro. Turchi subito, scrisse: «Mai sentita nominare». Marcello concluse : « La porto a scuola domani » e il dialogo improvvisamente fini, perché il professore, voltandosi, chiamò ad un tratto Turchi, chiedendogli quale fosse il maggior fiume della Germania. Al solito, Turchi si alzò in piedi e, dopo una lunga riflessione, confessò senza imbarazzo, quasi con lealtà sportiva, che non lo sapeva. In quel momento, la porta si aprì, e il bidello si affacciò ad annunziare la fine delle lezioni. Egli doveva a tutti i costi ottenere che Lino mantenesse la promessa c gli desse la rivoltella, pensò Marcello più tardi affrettandosi per le strade, verso il viale dei platani. Marcello si rendeva conto che Lino gli avrebbe dato l’arma soltanto che egli l’avesse voluto e, pur camminando, si domandò quale contegno avrebbe dovuto tenere per raggiungere più sicuramente il suo scopo. Pur non penetrando il vero motivo delle smanie di Lino, con istintiva civetteria quasi femminile intuiva che il modo più spiccio per entrare in possesso della rivoltella era quello suggeritogli il sabato avanti da Lino stesso: non curarsi di Lino, disprezzarne le offerte, respingerne le suppliche, rendersi, insomma, prezioso; finalmente non accettare di salire nella macchina se non quan69 do fosse ben sicuro che la rivoltella era sua. Perché, poi, Lino tenesse tanto a lui e lui fosse in grado di fare questa specie di ricatto, Marcello non avrebbe saputo dirlo. Lo stesso istinto che gli suggeriva di ricattare Lino, gli lasciava intravvedere, dietro i suoi rapporti con l’autista, l’ombra di un affetto insolito, di una qualità imbarazzante quanto misteriosa. Ma la rivoltella era in cima a tutti i suoi pensieri; né, d’altra parte, avrebbe potuto affermare che quell’affetto e la parte quasi femminile che gli toccava di recitare gli riuscissero veramente spiacevoli. La sola cosa che avrebbe voluto evitare, come pensò affacciandosi tutto sudato per il gran correre, sul viale dei platani, era che Lino lo prendesse per la vita, come aveva fatto nel corridoio della villa, la prima volta che si erano veduti. Come sabato, la giornata era tempestosa e rannuvolata, percorsa da un vento caldo che pareva ricco di spoglie rapinate un po’ dappertutto al suo turbolento passaggio: foglie morte, cartacce, piume, lanugini, fuscelli, polvere. Sul viale, il vento aveva investito proprio in quel momento un mucchio di foglie secche sollevandole in gran numero molto in su, tra i rami denudati dei platani. Egli si distrasse a guardare le foglie che volteggiavano per l’aria, sullo sfondo del cielo tetro, in tutto simili a miriadi di gialle mani dalle dita bene aperte, e poi, abbassando gli occhi, vide, tra tutte quelle mani d’oro mulinanti nel vento, la lunga forma nera e lucida dell’automobile ferma presso il marciapiede. Il cuore prese a battergli piu in fretta, non avrebbe saputo dir perché; tuttavia, fedele al suo piano, non affrettò il passo e tirò avanti, incontro alla macchina. Trascorse senza fretta accanto al finestrino, e subito, come ad un segnale, lo sportello si apri e Lino, senza berretto, spor70 se la testa fuori dicendo: «Marcello, vuoi salire? » Non potè fare a meno di meravigliarsi di quest’invito cosi serio, dopo i giuramenti del primo incontro. Cosi Lino si conosceva bene, pensò; ed era perfino comico vederlo fare una cosa che aveva preveduto lui stesso di fare nonostante ogni volontà contraria. Egli prosegui come se non avesse udito e si accorse, con oscura soddisfazione, che la macchina si era mossa e gli veniva dietro. Il marciapiede, molto ampio, era deserto a perdita d’occhio, tra le fabbriche regolari e piene di finestre e i grossi tronchi inclinati dei platani. La macchina lo seguiva al passo, con un ronzio sommesso che suonava carezzevole all’orecchio; dopo una ventina di metri, l’oltrepassò, si fermò a qualche distanza; poi lo sportello si apri di nuovo. Egli passò senza voltarsi e udì di nuovo la voce struggente che supplicava : « Marcello sali... ti prego... dimentica quello che ti ho detto ieri... Marcello mi senti? « Marcello non potè fare a meno di dirsi che quella voce era un po’ ripugnante: che aveva Lino da lamentarsi in quel modo? Era una fortuna che nessuno passasse per il viale, altrimenti egli si sarebbe vergognato. Tuttavia, non volle scoraggiare del tutto l’uomo e, pur oltrepassando la macchina, si voltò a metà a guardare indietro, come per invitarlo ad insistere. Si accorse di lanciare un’occhiata quasi lusinghiera, e, tutto ad un tratto, provò, inconfondibile, lo stesso sentimento di umiliazione non spiacevole, di finzione non innaturale che, due giorni prima, per un momento, gli aveva ispirato la gonnella legatagli alla vita dai compagni. Quasi che, in fondo, non gli fosse dispiaciuto, anzi fosse portato per natura a recitare la parte della donna sdegnosa e civetta. Intanto la macchina si era mossa di nuovo dietro di lui. Marcello si domandò se fosse giunto il 71 momento di cedere c decise, dopo riflessione, che ii momento non era ancora giunto. La macchina gli passò accanto, senza fermarsi, soltanto rallentando. Egli udì la voce dell’uomo che lo chiamava: « Marcello,... »; quindi, subito dopo, il rombo improvviso della macchina che si allontanava. Improvvisamente temette che Lino si fosse spazientito e se ne andasse; 10 invase una gran paura di avere a presentarsi, il giorno dopo, a mani vuote a scuola; e prese a correre gridando: «Lino... Lino, fermati Lino». Ma 11 vento si portava via le parole, disperdendole per aria insieme con le foglie morte, in un turbinio angoscioso e sonoro; la macchina rimpiccioliva a vista d’occhio; evidentemente Lino non aveva udito e se ne andava; e lui non avrebbe avuto la rivoltella; c Turchi, una volta di più, l’avrebbe canzonato. Poi egli respirò e riprese a camminare con passo quasi normale, rassicurato: la macchina era corsa avanti non per sfuggirlo ma per aspettarlo ad una traversa; adesso, infatti, si era fermata, sbarrando il marciapiede per tutta la sua larghezza. Gli venne una specie di rancore contro Lino per aver provocato in lui quell’umiliante batticuore; e decise in cuor suo, con subitaneo impulso di crudeltà, di farglielo scontare con una ben calcolata durezza. Intanto, senza fretta, era giunto alla traversa. La macchina era li, lunga, nera, luccicante con tutti i suoi vecchi ottoni e la sua carrozzeria antiquata. Marcello accennò a girarle intorno: subito lo sportello si apri e Lino si affacciò. «Marcello», disse con una decisione disperata. « dimentica quanto ti ho detto sabato... hai fatto fin troppo il tuo dovere... vieni, su, Marcello ». Marcello si era fermato presso il cofano. Tornò un passo indietro e disse con freddezza, senza guardare 72 l’uomo: « No, non ci vengo... ma non perché sabato mi hai detto di non venirci... perché proprio non mi va ». « E perché non ti va ? » «Perché si... perché dovrei salire? » « Per farmi piacere... ». « Ma io non ho voglia di farti piacere ». « Perché? Ti sono antipatico? » « Si », disse Marcello abbassando gli occhi e giocando con la maniglia dello sportello. Si rendeva conto di fare un viso crucciato, restio, ostile e non capiva piu se lo facesse per commedia o sinceramente. Era certo una commedia quella che stava recitando con Lino; ma se era una commedia, perché provava un sentimento cosi forte e cosi complicato, mischiato di vanità, di ripugnanza, di umiliazione, di crudeltà e di dispetto? Udì Lino ridere piano, affettuosamente e poi domandare : « E perché ti sono antipatico? » |