Alberto Moravia - Il conformista PROLOGO / CAPITOLO SECONDO |
Marcello non fece a tempo a pensare che Pasquale era un nome ridicolo
che l’uomo, quasi avesse intuito il suo pensiero, soggiunse : « Ma è un
nome ridicolo... tu, chiamami Lino». Adesso la macchina attraversava le larghe e sudice strade di un quartiere popolare, tra squallidi casamenti. Gruppi di monelli che giocavano in mezzo all’asfalto, si facevano da parte trafelati, donne scapigliate, uomini stracciati guardavano dai marciapiedi l’insolito passaggio. Marcello abbassò gli occhi, vergognoso di questa curiosità. « È il Trionfale », disse l’uomo, « ma ecco Monte Mario». La macchina usci dal quartiere povero, attaccò una larga strada a spirale, dietro un tram, tra due file di case allineate in salita. «A che ora devi essere a casa? » « C’è tempo », disse Marcello, « non mangiamo mai prima delle due ». « Chi ti aspetta a casa ? Il papà e la mamma ? » « Si ». « Hai anche fratelli ? » « No ». « E cosa fa tuo papà ? » «Non fa nulla», rispose Marcello un po’ incerto. La macchina, ad una svolta, sorpassò il tram e l’uomo, per prendere la voltata più stretta che fosse possibile, pesò con le due braccia sul volante, ma senza muovere il busto, con una destrezza piena di eleganza. Poi la macchina, sempre in salita, prese a correre lungo alte mura erbose, cancelli di ville, steccati di sambuco. Ogni tanto un ingresso decorato di lampioncini veneziani o un arco con l’insegna color sangue di bue, rivelava la presenza di qualche ristorante o di qualche rustica osteria. Lino domandò ad un tratto: «Tuo papà e tua mamma ti fanno dei regali ? » « Sì », rispose Marcello un po’ vagamente, « qualche volta». « Molti o pochi ? » Marcello non voleva confessare che i regali erano pochi e che, talvolta, le feste passavano addirittura senza regali. Si limitò a rispondere: «Cosi, cosi». « Ti piace ricevere regali ? » domandò Lino aprendo uno sportellino del cruscotto, togliendone un panno giallo e pulendo il vetro. Marcello lo guardò. L’uomo stava sempre di profilo, eretto il busto, la visiera del berretto sugli occhi. Disse a caso: «Si, mi piace». « E che regalo ti piacerebbe ricevere, per esèmpio ? » Questa volta la frase era esplicita e Marcello non potè fare a meno di pensare che il misterioso Lino, per qualche suo motivo, intendesse davvero fargli un regalo. Ricordò ad un tratto l’attrazione che gli ispiravano le armi; e nel tempo stesso, quasi con la sensazione di fare una scoperta, si disse che il possesso di una vera arma gli avrebbe assicurato la considerazione e il rispetto dei compagni. Arrischiò, un po’ scetticamente, consapevole di domandare troppo : « Per esempio, una rivoltella... ». « Una rivoltella », ripete l’uomo senza mostrare alcuna sorpresa. «Che specie di rivoltella? Una rivoltella con le cartucce oppure una rivoltella a aria compressa ? » « No », disse Marcello arditamente, « una rivoltella vera ». «E che ne faresti di una rivoltella vera? » Marcello preferì non dire la vera ragione. « Ci sparerei al bersaglio», rispose, «fino a quando mi sembrasse di avere una mira infallibile». « Ma perché ti importa tanto di avere una mira infallibile? » L’uomo pareva, come pensò Marcello, muovere le domande più per il gusto di farlo parlare che per vera curiosità. Tuttavia, rispose seriamente: «Con una mira sicura ci si può difendere contro chiunque ». L’uomo tacque per un momento. Poi suggerì: « Metti la mano in quella saccoccia, li, nello sportello accanto a te ». Marcello, incuriosito, ubbidì e senti sotto le sue dita il freddo di un oggetto di metallo. L’uomo disse: «Tirala pure fuori». L’automobile ebbe un rapido scarto, per evitare un cane che attraversava la strada. Marcello tirò fuori l’oggetto di metallo: era proprio una rivoltella del tipo automatico, nera e piatta, pesante di distruzione e di morte, protesa in avanti con la canna come per sputare le pallottole. Quasi senza volerlo, con dita tremanti di compiacimento, egli strinse in pugno il calcio. «Una rivoltella come quella?» domandò Lino. « Si », disse Marcello. « Ebbene », disse Lino, « se proprio la desideri, te la darò... non quella, però, che è in dotazione alla macchina... un’altra eguale». Marcello non disse nulla. Gli pareva di essere entrato in una magica aria di favola, in un mondo diverso da quello solito, nel quale autisti sconosciuti invitavano a salire in macchina e regalavano rivoltelle. Tutto sembrava diventato oltremodo facile; ma, al tempo stesso, non sapeva neppur lui perché, gli pareva che questa facilità cosi appetitosa rivelasse in un secondo momento un sapore sgradevole, come se, legata ad essa, si celasse una difficoltà ancora ignota ma incombente e di prossima rivelazione. Probabilmente, come pensò con freddezza, nella macchina erano in due ad avere uno scopo: il suo era di possedere una rivoltella, quello di Lino di ottenere in cambio della rivoltella qualche cosa di ancora misterioso e forse inaccettabile. Si trattava ora di vedere chi dei due avrebbe tratto dal baratto il maggiore vantaggio. Egli domandò: «Ma dove andiamo? » Lino rispose: «Andiamo nella casa dove abito... a cercare la rivoltella». « E dov’è la casa ? » « Ecco, siamo arrivati », rispose l’uomo, togliendogli di mano la rivoltella e mettendosela in tasca. Marcello guardò: la macchina si era fermata sulla strada che ormai sembrava proprio un’ordinaria strada di campagna, con gli alberi, le siepi di sambuco, e, dietro le siepi, i campi e il cielo. Ma poco più giù, si vedeva un portale con un arco, due colonne e un cancello dipinto di verde. « Aspetta qui », disse Lino. Egli discese e andò al portale. Marcello lo guardò mentre spalancava i due battenti del cancello e poi tornava indietro: non era alto, sebbene, seduto, lo sembrasse; aveva le gambe corte rispetto al busto e i fianchi larghi. Lino risali nella macchina e la guidò attraverso il portale. Apparve un viale ghiaiate tra due file di piccoli cipressi spennacchiati che il vento tempestoso scuoteva e tormentava. In fondo al viale, ad un labile raggio di sole, qualche cosa scintillò stridulamente sullo sfondo del cielo temporalesco: una vetrata di veranda incassata in un edificio di due soli piani. « È la villa », disse Lino, « ma non c’è nessuno ». «Chi è il padrone?» domandò Marcello. « Vuoi dire la padrona », corresse Lino, « una signora americana... ma è fuori, a Firenze ». La macchina si fermò sul piazzale. La villa, lunga e bassa, con superfici rettangolari di cemento bianco e di mattoni rossi alternate qua e là alle strisce di vetro specchiante delle finestre, aveva un porticato sostenuto da pilastri quadrati, di pietra greggia. Lino apri lo sportello e balzò a terra dicendo: «Allora, scendiamo ». Marcello non sapeva che cosa volesse Lino da lui né gli riusciva di indovinarlo. Ma sempre più cresceva in lui la diffidenza di chi teme di essere ingannato. « E la rivoltella? », domandò senza muoversi. «È là dentro», rispose Lino con qualche impazienza indicando le finestre della villa, « ora l’andiamo a prendere ». « Me la darai ? » «Certo, una bella rivoltella nuova». Senza dir parola, Marcello discese anche lui. Subito l’investi, con una raffica calda e piena di polvere, l’inebriante, funebre vento autunnale. Non sapeva neppur lui perché, gli venne, a quella raffica, come un presentimento, e, pur seguendo Lino, si voltò a guardare un’ultima volta allo spiazzo ghiaiata, circondato di cespugli e di stenti oleandri. Lino lo precedeva ed egli notò che qualche cosa gli gonfiava la tasca laterale della tunica: la rivoltella che, in macchina, all’arrivo, l’uomo gli aveva tolto di mano. Improvvisamente fu sicuro che Lino non disponeva che di quella rivoltella e si domandò perché mai gli avesse mentito e, adesso, lo attirasse dentro la villa. Cresceva in lui il senso dell’inganno e, insieme, la volontà di tenere gli occhi bene aperti e non lasciarsi ingannare. Intanto erano entrati in una vasta sala di soggiorno, sparsa di gruppi di poltrone e di divani, con un camino dalla cappa di mattoni rossi sulla parete di fondo. Lino, sempre precedendo Marcello, si diresse, attraverso là sala, verso una porta dipinta di turchino, in un angolo. Marcello domandò inquieto : « Ma dove andiamo ? » « Andiamo in camera mia », rispose Lino leggermente, senza voltarsi. Marcello decise di fare, ad ogni buon conto, una prima resistenza, in modo che Lino comprendesse che aveva penetrato il suo gioco. Come Lino apri la porta azzurra, disse tenendosi a distanza: «Dammi la rivoltella subito o se no me ne vado ». « Ma non ce l’ho qui la rivoltella », rispose Lino voltandosi a metà, « l’ho in camera mia ». « Si che ce l’hai », disse Marcello, « l’hai nella tasca della giacca ». «Ma questa è della macchina ». « Tu non ne hai altre ». Lino parve avere un moto di impazienza subito represso. Marcello notò una volta di più il contrasto che formavano, con il viso asciutto e severo, la bocca un po’ molle e gli occhi ansiosi, dolenti, supplichevoli. « Ti darò questa », disse alfine, « ma vieni con me... che ti fa?... Qui possiamo essere visti da qualche contadino, con tutte queste finestre... ». « E che male c’è che ci vedano ? » avrebbe voluto domandare Marcello; ma si trattenne perché avvertiva oscuramente che il male c’era sebbene gli fosse impossibile definirlo. «Va bene», disse puerilmente, « ma dopo me la darai ? » « Stai tranquillo ». Entrarono in un piccolo corridoio bianco e Lino chiuse la porta. In fondo al corridoio c’era un’altra porta azzurra. Questa volta Lino non precedette Marcello, ma gli si mise a lato e gli passò leggermente un braccio intorno la vita domandando : « Ci tieni tanto alla tua rivoltella? » « Si », disse Marcello incapace quasi di parlare per l’imbarazzo che quel braccio gli ispirava. Lino tolse il braccio, apri la porta e introdusse Marcello nella camera. Era una stanzetta bianca, lunga e stretta, con una finestra in fondo. Non c’era che un letto, un tavolo, un armadio e un paio di seggiole. Tutti questi mobili erano dipinti di verde chiaro. Marcello notò, appeso alla parete, sopra il capezzale, un crocifisso di bronzo, del tipo più comune. Sul comodino si vedeva un libro spesso, rilegato in nero, con il taglio rosso, che Marcello giudicò essere un libro di devozioni. La camera, vuota di oggetti e di panni, sembrava oltremodo pulita; tuttavia per l’aria, c’era un odore forte, come di sapone all’acqua di colonia. Dove l’aveva già sentito? Forse nel bagno, subito dopo che sua madre, al mattino, vi si era lavata. Lino gli disse negligentemente : « Siediti sul letto, vuoi... è più comodo», ed egli ubbidì, in silenzio. Lino adesso andava e veniva per la camera. Si tolse il berretto e lo posò sopra il davanzale della finestra; si sbottonò il colletto e con un fazzoletto si asciugò il sudore intorno il collo. Poi apri l'armadio, ne trasse una grande bottiglia di acqua di colonia, vi bagnò il fazzoletto e se lo passò con sollievo intorno il viso e sulla fronte. « Ne vuoi anche tu ? » domandò a Marcello, « è rinfrescante ». Marcello avrebbe voluto rifiutare, la bottiglia e il fazzoletto gli incutevano non sapeva che ribrezzo. Ma lasciò che Lino gli passasse, con fresca carezza, la palma sulla faccia. Lino ripose l’acqua di colonia nell’armadio e venne a sedersi sul letto, di fronte a Marcello. Si guardarono. Il viso di Lino, secco e austero, era adesso atteggiato ad un’espressione nuova, struggente, carezzevole, supplichevole. Egli contemplava Marcello e taceva, Marcello, spazientito, anche per far cessare quella contemplazione imbarazzante, domandò alfine : « E la rivoltella ? » Vide Lino sospirare e poi trarre di tasca, come a malincuore, l’arma. Egli tese la mano, ma il viso di Lino si indurì, egli ritirò l’oggetto e disse in fretta: « Te la darò... ma devi meritartela ». Marcello a queste parole provò quasi un sollievo. Dunque, era come aveva pensato, Lino voleva qualche cosa in cambio della rivoltella. Con tono sollecito e falsamente ingenuo, come a scuola quando faceva qualche baratto di pennini o di palline di vetro, disse: «Di’ tu quello che vuoi in cambio e ci metteremo d’accordo ». Vide Lino abbassare gli occhi, esitare e poi domandare lentamente: «Cosa faresti per avere questa rivoltella? » Notò che Lino aveva eluso la sua proposta : non si trattava di un oggetto da scambiare con la rivoltella ma di qualche cosa che egli avrebbe dovuto fare per ottenerla. Sebbene non capisse che cosa potesse essere, disse sempre con quel suo tono falsamente ingenuo: « Non so, dimmi tu ». Ci fu un momento di silenzio. «Faresti qualsiasi cosa?» domandò ad un tratto Lino con voce più alta, afferrandogli una mano. Il tono e il gesto allarmarono Marcello. Egli si domandò se per caso Lino non fosse un ladro che gli chiedesse la sua complicità. Gli parve, dopo riflessione, di poter scartare quest’ipotesi. Tuttavia rispose prudentemente : « Ma che cos’è che vuoi che io faccia? Perché non lo dici? » Lino si trastullava adesso con la sua mano, guardandola, rivoltandola, stringendola e allentando la stretta. Poi, con gesto quasi sgarbato, la respinse e disse, guardandolo, lentamente : « Sono sicuro che certe cose non le faresti ». « Ma dillo », insistette Marcello con una specie di buona volontà tutta mischiata di imbarazzo. « No, no », protestò Lino. Marcello notò che un rossore singolare, ineguale gli macchiava il viso pallido al sommo delle guance. Gli parve che Lino fosse tentato di parlare ma volesse essere sicuro che lui lo desiderava. Allora ebbe un gesto di consapevole seppure innocente civetteria. Si sporse e andò con la sua ad afferrare la mano dell’uomo: «Dillo su, perché non lo dici? » Segui un lungo silenzio. Lino guardava ora alla mano di Marcello, ora al viso e pareva esitare. Finalmente, respinse di nuovo la mano del ragazzo, ma con dolcezza questa volta, si levò e mosse qualche passo per la stanza. Quindi tornò a sedersi e riprese la mano di Marcello, in maniera affettuosa, un po’ come un padre o una madre prendono la mano al figlio. Disse: « Marcello, sai chi sono io? » « No ». « Sono un prete spretato », disse Lino con uno scoppio di voce doloroso, accorato, patetico, « un prete spretato scacciato per indegnità dal collegio dove insegnava... e tu, nella tua innocenza, non ti rendi conto di quello che potrei chiederti in cambio di questa rivoltella che ti fa tanto gola... e io sono stato tentato di abusare della tua ignoranza, della tua innocenza, della tua infantile avidità!... Ecco chi sono, Marcello». Egli parlava in tono di profonda sincerità; poi si voltò verso il capo del letto e, in una maniera inaspettata, apostrofò il crocifisso senza alzare la voce, come lamentandosi: « Ti ho tanto pregato... ma tu mi hai abbandonato... e sempre, sempre ricado... perché mi hai abbandonato ? » Queste parole si persero in una specie di mormorio, come se Lino avesse parlato con se stesso. Quindi egli si levò dal letto, andò a prendere il berretto che aveva posato sul davanzale e disse a Marcello: « Andiamo... vieni... ti riaccompagno a casa». Marcello non disse nulla: si sentiva stordito e incapace per adesso di giudicare quanto era avvenuto. Segui Lino per il corridoio e poi attraverso la sala di soggiorno. Fuori, sullo spiazzo, il vento soffiava tuttora intorno la grande macchina nera, sotto un cielo rannuvolato e senza sole. Lino salì sulla macchina e lui gli sedette accanto. La macchina si mosse, percorse il viale, usci dolcemente dal portale, nella strada. Per un lungo momento non parlarono. Lino guidava come prima, eretto il busto, la visiera del berretto sugli occhi, le mani guantate posate sul volante. Percorsero un buon tratto di strada e poi Lino, senza voltarsi, domandò in maniera inopinata: « Ti dispiace di non avere avuto la rivoltella ? » A queste parole si riaccese nell’animo di Marcello l’avida speranza di possedere l’oggetto tanto desiderato. Dopo tutto, gli venne fatto di pensare, poteva darsi che nulla fosse ancora perduto. Rispose con sincerità: «Certo che mi è dispiaciuto ». « Cosi », domandò Lino, « se ti dessi appuntamento per domani alla stessa ora di oggi... tu ci verresti? » « Domani è domenica », rispose giudiziosamente Marcello, « ma lunedì si... possiamo incontrarci sul viale, allo stesso punto di oggi». L’altro tacque un momento. Quindi, improvvisamente, con voce lamentosa e forte gridò : « Non parlarmi più... non guardarmi più... e se lunedì mi vedrai a mezzogiorno sul viale, non darmi retta, non salutarmi... hai capito? » « Ma che gli prende? » si domandò Marcello un po’ indispettito. E rispose : « Io non ci tengo a vederti... sei tu che oggi mi hai fatto venire a casa tua ». Si, ma non deve più ripetersi... mai più», disse Lino con forza, « io mi conosco e so di certo che stanotte non farò che pensare a te... e che lunedì ti aspetterò sul viale, anche se oggi decido di non farlo... io mi conosco... ma tu non devi curarti di me ». Marcello non disse nulla. Lino prosegui, sempre con la stessa furia : « Io penserò a te tutta la notte Marcello... e lunedì sarò sul viale... con la rivoltella... ma tu non devi curarti di me». Egli girava intorno la stessa frase, ripetendola; e Marcello, con la sua fredda e innocente perspicacia, capiva che in realtà Lino voleva dargli un appuntamento e, col pretesto di metterlo in guardia, effettivamente glielo dava. Lino, dopo un momento di silenzio, domandò di nuovo : « Hai sentito ? » « Si ». « Che cosa ho detto ? » «Che lunedì sarai sul viale ad aspettarmi». « Non ti ho detto soltanto questo », disse l’altro con dolore. «E che», fini Marcello, «io non dovrò curarmi di te». « Si », confermò Lino, « a nessun patto... guarda che io ti chiamerò, ti supplicherò, ti seguirò con la macchina... ti prometterò tutto quello che vuoi... ma tu devi tirare dritto, e non darmi retta». Marcello, spazientito, rispose: «Va bene, ho capito ». « Ma tu sei un bambino », disse Lino passando dalla furia ad una specie di carezzevole dolcezza, « e non sarai capace di resistermi... verrai senza dubbio... sei un bambino, Marcello». Marcello si offese: «Non sono un bambino... sono un ragazzo... e poi tu non mi conosci». Lino fermò di colpo la macchina. Erano ancora sulla strada della collina, sotto un alto muro di cinta, più avanti si intravedeva l’arco ornato di lampioncini veneziani di un ristorante. Lino si voltò verso Marcello: « Veramente », domandò con una specie di dolorosa ansietà, « veramente ti rifiuterai di venire con me? » « Non sei forse tu », domandò Marcello ormai consapevole del suo gioco, « che me lo chiedi ? » « Si, e vero », disse Lino disperato, rimettendo in movimento l’automobile, « si è vero... hai ragione... sono io, il pazzo, che te lo chiedo... proprio io». Dopo questa esclamazione, egli tacque e ci fu silenzio. La macchina discese fino in fondo alla strada e percorse di nuovo le sudicie vie del quartiere popolare. Ecco il grande viale con gli alti platani nudi e bianchi, i mucchi di foglie gialle lungo i marciapiedi deserti, le fabbriche piene di finestre. Ecco il quartiere dove si trovava il villino di Marcello. Lino domandò senza voltarsi : « Dove sta la tua casa ? » « È meglio che fermi qui », disse Marcello consapevole del piacere che ispirava all’uomo questo suo accento di complicità, « altrimenti potrebbero vedermi mentre scendo dalla tua macchina». L’automobile si fermò. Marcello discese e Lino, attraverso il finestrino, gli tese il pacco di libri, dicendo decisamente: «Allora a lunedì, sul viale, allo stesso posto di oggi ». « Ma io », disse Marcello prendendo i libri, « debbo fingere di non vederti, no?» Vide Lino esitare e provò quasi un sentimento di crudele soddisfazione. Gli occhi di Lino, intensamente accesi in fondo alle orbite incavate, lo covavano adesso con uno sguardo supplichevole e angosciato. Poi egli disse appassionatamente: «Fa come credi... fa di me quello che vuoi ». La sua voce terminò in una specie di lamento cantante e voglioso. « Guarda che io non ti guarderò neppure », avverti per l’ultima volta Marcello. Vide Lino fare un gesto che non capi ma che gli parve di disperato assenso. Quindi la macchina parti, allontanandosi lentamente in direzione del viale. |