ÈÒÀËÜßÍÑÊÈÉ ßÇÛÊ
Alberto Moravia - Il conformista
PROLOGO / CAPITOLO PRIMO
« Ma di’ quello che hai da dire... parla... perbacco ».
«Con te non ho nulla da dire».
Marcello cominciava appena a capire che non era l’uccisione del gatto il motivo del malumore dei genitori quando, improvvisamente, tutto parve precipitare. Il padre ripetè ancora una volta : « Parla, perdio»; la madre, per tutta risposta, alzò le spalle; allora il padre prese il bicchiere a calice davanti al piatto e, gridando forte: «Vuoi parlare si o no?» lo sbattè con violenza sulla tavola. Il bicchiere si ruppe, il padre con un’imprecazione portò la mano ferita alla bocca, la madre spaventata si levò dalla tavola e si avviò in fretta verso la porta. Il padre si succhiava il sangue della mano quasi con voluttà, inarcando le sopracciglia al disopra della mano; ma vedendo la moglie andarsene, interruppe di succhiare e le gridò: « Ti proibisco di andartene... hai capito ». Come risposta venne il colpo della porta sbattuta con violenza. Il padre si alzò anche lui e si slanciò verso la porta. Eccitato dalla violenza della scena, Marcello lo segui.
Il padre si era già avviato su per la scala, una mano sulla balaustrata, senza scomporsi né, apparentemente, affrettarsi; ma Marcello che gli veniva dietro vide che saliva gli scalini due a due, quasi volando silenziosamente verso il pianerottolo; come, pensò, un orco da favola calzato degli stivali delle sette leghe; e non dubitò un momento che questa ascesa calcolata e minacciosa avrebbe avuto ragione della fretta disordinata della madre che poco più su scappava per gli scalini, uno per uno, con le gambe impacciate dalla gonna stretta. «Ora l’ammazza», pensò seguendo il padre. Giunta sul pianerottolo, la madre fece una piccola corsa fino alla sua camera, non tanto rapida però da impedire al marito di insinuarsi dietro di lei per la fessura della porta. Tutto questo Marcello lo vide ascendendo la scala con le sue gambe corte di bambino che non gli consentivano né di salire due gradini per volta come il padre né di saltellare in fretta come la madre. Come arrivò al pianerottolo, notò che al fracasso dell’inseguimento, era, adesso, subentrato, stranamente, un silenzio improvviso. La porta della camera della madre era rimasta aperta. Marcello, un po’ titubante, si affacciò sulla soglia.
Dapprima non vide, in fondo alla camera in penombra, ai due lati del largo letto basso, che le due grandi tende vaporose delle finestre, sollevate da una corrente di vento dentro la stanza, su su verso il soffitto, fin quasi a sfiorare il lume centrale. Queste tende silenziose, biancheggianti a mezzaria nella camera buia, davano un senso di deserto, come se, inseguendosi, i genitori di Marcello si fossero involati fuori dalle finestre spalancate, nella notte estiva. Poi, nella striscia di luce che dal corridoio, attraverso la porta, giungeva fino al letto, scorse finalmente i genitori. O meglio, non vide che il padre, di schiena, sotto il quale la madre scompariva quasi compietamente, salvo che per i capelli sparsi sul guanciale e per un braccio levato verso la spalliera del letto. Questo braccio cercava, convulsamente, di aggrapparsi con la mano alla spalliera, senza però riuscirvi; e intanto il padre, schiacciando sotto il proprio corpo il corpo della moglie, faceva con le spalle e con le mani dei gesti come se avesse voluto strangolarla. « La sta ammazzando », pensò Marcello convinto, fermandosi sulla soglia. Provava in quel momento una sensazione insolita di eccitazione pugnace e crudele e insieme un desiderio forte di intervenire nella lotta, non sapeva neppur lui se per dar man forte al padre o difendere la madre. Nello stesso tempo, quasi gli sorrideva la speranza di vedere, attraverso questo delitto tanto più grave, cancellato il proprio: che era infatti l’uccisione di un gatto in confronto di quella di una donna? Ma proprio nel momento in cui, vincendo l’ultima esitazione, affascinato e pieno di violenza, si muoveva dalla soglia, la voce della madre, per niente strozzata, anzi quasi carezzevole, mormorò piano: «lasciami»; e, in contraddizione con questa preghiera, il braccio che ella aveva tenuto sino allora alzato a cercare l’orlo della spalliera, si abbassò a cingere la nuca del marito. Meravigliato, quasi deluso, Marcello indietreggiò e usci nel corridoio.
Pian piano, procurando di non far rumore sugli scalini, discese a pianterreno e si diresse verso la cucina. Adesso lo pungeva di nuovo la curiosità di sapere se il gatto che era saltato giù dalla finestra nella sala da pranzo fosse quello che temeva di avere ucciso. Spinta la porta della cucina, gli apparve un tranquillo quadro casalingo: la cuoca matura e la giovane cameriera, sedute alla tavola di marmo, in atto di mangiare, nella cucina bianca, tra il fornello elettrico e la ghiacciaia. E, in terra, sotto la finestra, il gatto intento a leccare con la lingua rosea il latte di una ciotola. Ma, come si accorse subito con delusione, non era il gatto grigio bensì un gatto striato del tutto diverso.
Non sapendo come giustificare la propria presenza nella cucina, andò al gatto, si abbassò e lo accarezzò sul dorso. Il gatto, pur senza interrompere di leccare il latte, prese a far le fusa. La cuoca si alzò e andò a chiudere la porta. Poi apri la ghiacciaia, ne trasse un piatto con una fetta di dolce, lo posò sulla tavola e, accostando una seggiola, disse a Marcello: «Vuoi un po’ del dolce di ieri sera?... L’ho messo apposta da parte per te». Marcello, senza dir parola, lasciò il gatto, sedette e cominciò a mangiare, il dolce. La cameriera disse : « Io però certe cose non le capisco... hanno tanto tempo durante la giornata, hanno tanto posto in casa e, invece, proprio a tavola, in presenza del bambino, debbono litigare ».
La cuoca rispose sentenziosamente : « Quando non si ha voglia di occuparsi dei figli, è meglio non metterli al mondo».
La cameriera, dopo un breve silenzio, osservò:
« Lui per l’età potrebbe essere suo padre... si capisce che non vanno d’accordo... ».
« Fosse soltanto questo... », disse la cuoca con uno sguardo pesante in direzione di Marcello.
« E poi », continuò la cameriera, « secondo me quell’uomo non è normale... ».
Marcello, a questa parola, pur continuando a mangiare lentamente il dolce, drizzò l’orecchio. « Anche lei la pensa come me », prosegui la cameriera, « sai che mi ha detto l’altro giorno mentre la spogliavo per andare a letto? Giacomina, un giorno o l’altro, mio marito mi uccide... io le ho risposto: ma signora che aspetta a lasciarlo? E lei... »
« Sss », la interruppe la cuoca indicando Marcello. La cameriera comprese e domandò a Marcello : « Dove sono papà e mamma ? »
« Su, in camera », rispose Marcello. E poi, tutto ad un tratto, come spinto da un impulso irresistibile : « È proprio vero che papà non è normale. Lo sapete cosa ha fatto? »
« No, che cosa? »
« Ha ammazzato un gatto», disse Marcello.
« Un gatto, e come? »
" Con la mia fionda... l’ho visto io, nel giardino, seguire un gatto grigio che camminava sul muro... poi ha preso un sasso e ha tirato al gatto e l’ha colpito in un occhio... il gatto è caduto nel giardino di Robertino e poi io sono andato a vedere e ho visto che era morto ». Via via che parlava, si era infervorato, senza tuttavia abbandonare il tono del'innocente che con ignara e candida ingenuità racconta qualche misfatto al quale abbia assistito. « Ma pensa un po’ », disse la cameriera giungendo le mani, « un gatto... un uomo di quell’età, un signore, prendere la fionda del figlio e ammazzare un gatto... e poi non bisogna dire che è un anormale».
« Chi è cattivo con le bestie, è anche cattivo con i cristiani », disse la cuoca, « si comincia con un gatto e poi si ammazza un uomo».
«Perché?» domandò ad un tratto Marcello levando gli occhi dal piatto.
« Si dice cosi », rispose la cuoca facendogli una carezza. « Sebbene », soggiunse rivolta alla cameriera, « non sia sempre vero... quello che ammazzò tutta quella gente a Pistoia... l’ho letto nel giornale... sai cosa fa adesso, in prigione? Alleva un canarino».
Il dolce era finito. Marcello si alzò, e usci dalla cucina.