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Il conformista 350
Alberto Moravia - Il conformista EPILOGO |
CAPITOLO PRIMO Era venuta la sera, e Marcello, che aveva passato la giornata disteso sul letto fumando e riflettendo, si levò e andò alla finestra. Nere nella luce verdognola del crepuscolo estivo, le case che d’ogni parte rinserravano la sua, si levavano intorno i nudi cortili di cemento ornati di piccole aiuole verdi e di siepi di mortella tagliata. Qualche finestra splendeva, rossa, e, nelle stanze di servizio, si potevano vedere i camerieri in giacca da fatica a strisce, le cuoche in grembiale bianco accudire alle faccende domestiche, tra gli armadi laccati dei guardaroba e i fornelli senza fiamme delle cucine elettriche. Marcello alzò gli occhi in su, oltre i terrazzi delle case; le ultime fumate purpuree del tramonto svanivano nel cielo serotino; poi li abbassò di nuovo e vide una macchina entrare e fermarsi nel cortile e il guidatore scendere insieme con un grosso cane bianco che prese subito a correre tra le aiuole, uggiolando e abbaiando di gioia. Era un quartiere ricco, tutto nuovo, venuto su negli ultimi anni, e guardando a quei cortili e a quelle finestre, nessuno avrebbe pensato che la guerra durasse da quattro anni e che, quel giorno, un governo che durava da venti, fosse caduto. Nessuno salvo lui, come pensò, e tutti coloro che si trovavano nelle sue condizioni. Folgorante, per un momento, gli apparve l’immagine di una verga divina che, sospesa sulla grande città distesa pacificamente sotto il cielo sereno, colpiva qua e là alcune famiglie gettandole nel terrore, nella costernazione e nel lutto; mentre i vicini restavano indenni. La sua famiglia era tra le colpite, come sapeva e come aveva preveduto fin dall’inizio della guerra, una famiglia come le altre, con gli stessi affetti e la stessa intimità, proprio normale, di quella normalità che egli aveva ricercato con tanta tenacia per anni e che adesso si rivelava puramente esteriore e tutta materiata di anormalità. Ricordò di aver detto alla moglie, il giorno dello scoppio della guerra in Europa : « Se fossi logico, oggi dovrei suicidarmi », e ricordò anche il terrore che avevano provocato in lei queste parole. Come se avesse saputo ciò che esse nascondevano, al di là di una semplice previsione dello sfavorevole andamento del conflitto. Ancora una volta, si domandò se Giulia sapesse del vero esser suo e della parte che aveva avuto nella morte di Quadri; e ancora una volta gli sembrò impossibile che ella sapesse; sebbene, per certi segni, si potesse supporre il contrario. Ormai si rendeva conto, con perfetta chiarezza, che aveva, come si dice, puntato sul cavallo perdente; ma perché avesse puntato in quel modo e perché il cavallo non avesse vinto, questo, all’infuori delle constatazioni di fatto più ovvie, non gli era chiaro. Ma avrebbe voluto esser sicuro che tutto quello che era avvenuto doveva avvenire; cioè che egli non avrebbe potuto puntare in modo diverso né con esito diverso : di questa sicurezza aveva bisogno più che di una liberazione dai rimorsi che non provava. Infatti, per lui, il solo rimorso possibile era di aver sbagliato, e cioè di aver fatto quello che aveva fatto senza una necessità assoluta e fatale. Di avere, insomma, ignorato deliberatamente o involontariamente che avrebbe potuto fare cose tutte diverse. Ma se poteva avere la sicurezza che questo non era vero, ebbene, gli pareva che, sia pure nella maniera spenta e atona che gli era solita, poteva essere in pace con se stesso. In altri termini, pensò, doveva esser sicuro di aver riconosciuto il proprio destino e di averlo accettato qual’era, utile agli altri e a lui stesso forse in maniera soltanto negativa, ma purtuttavia utile. Nel dubbio, intanto, lo consolava l’idea che anche se ci fosse stato errore, e questo non si poteva escludere, egli aveva puntato più di chiunque altro; più di tutti coloro che si trovavano nelle sue stesse condizioni. Era una consolazione dell’orgoglio, la sola che gli restasse. Altri, domani, avrebbero potuto cambiare idee, partito, vita, persino carattere; per lui, invece, questo non era possibile e non soltanto nei confronti degli altri ma anche di se stesso. Aveva fatto quello che aveva fatto per motivi soltanto suoi e fuori da ogni comunione con gli altri; cambiare, anche se gli fosse stato consentito, avrebbe voluto dire annullarsi. Ora, tra i tanti annientamenti, proprio questo avrebbe voluto evitare. Pensò a questo punto che, se errore c’era stato, il primo e maggiore errore era stato di voler uscire dalla propria anormalità, di cercare una normalità purchessia attraverso la quale comunicare con gli altri. Quest’errore era nato da un istinto potente; disgraziatamente la normalità in cui quest’istinto si era imbattuto, non era che una forma vuota dentro la quale tutto era anormale e gratuito. Al primo urto, questa forma era andata in pezzi; e quell’istinto cosi giustificato e cosi umano aveva fatto di lui un carnefice della vittima che era stato. Il suo errore, insomma, non era stato tanto di aver ucciso Quadri, quanto di aver voluto obliterare il vizio di origine della propria vita con mezzi inadeguati. Ma, tornò a domandarsi, sarebbe forse stato possibile che le cose avessero potuto andare altrimenti? No, non sarebbe stato possibile, pensò ancora, a guisa di risposta. Lino aveva dovuto insidiare la sua innocenza e lui, per difendersi, aveva dovuto ucciderlo, e poi, per liberarsi dal senso di anormalità che ne era derivato, aveva dovuto ricercare la normalità nel modo che l’aveva cercata; e per ottenere questa normalità aveva dovuto pagare un prezzo corrispondente al fardello di anormalità di cui aveva inteso liberarsi; e questo prezzo era stata la morte di Quadri. Cosi tutto era stato fatale seppure liberamente accettato; come tutto era stato al tempo stesso giusto e ingiusto. Più che pensare queste cose, gli pareva di sentirle, con la percezione acuta e dolorosa di un’angoscia che rifiutava e a cui si ribellava. Avrebbe voluto essere distaccato e calmo di fronte al disastro della propria vita come davanti ad uno spettacolo funesto ma lontano. Quest’angoscia, invece, gli faceva sospettare un rapporto di panico tra lui e gli avvenimenti, nonostante la chiarezza con cui si sforzava di esaminarli. Del resto non era facile in quel momento distinguere la chiarezza dalla paura; e, forse, il miglior partito era tenere, come sempre, un contegno decoroso e impassibile. Dopo tutto, pensò ancora, quasi senza ironia, come tirando le somme delle proprie modeste ambizioni, non aveva nulla da perdere; a meno che per perdita si intendesse la rinunzia al suo mediocre posto di funzionario statale, a questa casa che doveva pagare a rate in venticinque anni, alla macchina anch’essa da pagarsi in due anni e a pochi altri ammennicoli della vita comoda che gli era sembrato di dover concedere a Giulia. Non aveva proprio nulla da perdere; e se in quel momento fossero venuti ad arrestarlo, l’esiguità dei vantaggi materiali che aveva tratto dalla sua funzione, avrebbe meravigliato i suoi stessi nemici. Si staccò dalla finestra e si voltò verso la stanza. Era una camera da letto matrimoniale, come l’aveva voluta Giulia. Di mogano lucido e scuro, con le maniglie e gli ornamenti di bronzo, di un approssimativo stile impero. Gli venne in mente che anche quella stanza era stata comprata a rate; e che era stata finita di pagare appena l’anno prima. «Tutta la nostra vita », pensò con sarcasmo, togliendo la giubba dalla seggiola e infilandola, «è a rate... ma le ultime sono le più grosse e non riusciremo mai a pagarle ». Rimise a posto con il piede lo scendiletto in disordine e usci dalla stanza. Passò nel corridoio e andò, in fondo, ad una porta socchiusa attraverso la quale traspariva un po’ di luce. Era la camera da letto della figlia e, come entrò, indugiò un momento sulla soglia, quasi incredulo di fronte alla scena familiare e consueta che si offriva ai suoi occhi. La stanza era piccola e arredata con lo stile grazioso e colorato proprio alle camere dove dormono e vivono i fanciulli. I mobili erano laccati di rosa, le tende erano azzurrine, le pareti erano tappezzate di carta da parati con un disegno di canestrini di fiori. Sul tappeto, parimenti rosa, erano sparse in disordine molte bambole di varia grandezza e altri balocchi. La moglie stava seduta al capezzale e Lucilla, la bambina, era già in letto. La moglie, che discorreva con la bambina, si voltò appena al suo ingresso lanciandogli un lungo sguardo, senza, però, dir parola. Marcello prese una di quelle seggioline laccate e sedette anche lui presso il letto. La bambina disse: «Buona sera, papà». « Buona sera, Lucilla », rispose Marcello guardandola. Era una bambina bruna, delicata, con il viso tondo, gli occhi grandissimi e di espressione struggente, e i tratti molto fini, quasi leziosi nella loro eccessiva soavità. Non sapeva neppur lui perché, in quel momento, ella gli parve addirittura troppo graziosa e soprattutto consapevole della sua grazia, in una maniera, come pensò, che non escludeva forse un principio di innocente civetteria e che gli ricordò, in maniera spiacevole, sua madre a cui la bambina rassomigliava molto. Questa civetteria si notava nel modo con cui, parlando a lui o alla madre, volgeva gli occhi grandi e vellutati, con effetti strani in una bambina di sei anni; e nell’estrema, quasi incredibile sicurezza del discorso. Vestita di una camicia azzurra, tutta trine e sbuffi, seduta sul letto, teneva le mani giunte per la preghiera serale che l’arrivo del padre aveva interrotto. « Suvvia, Lucilla, non t’incantare », disse la madre bonariamente, « suvvia, di’ la preghiera con me ». «Io non m’incanto», disse la bambina volgendo, con una smorfia di impaziente sufficienza, gli occhi al soffitto, « sei tu che quando è entrato papà hai smesso... allora ho smesso anch’io». « Hai ragione», disse Giulia con flemma, « ma tu la preghiera la sai... potevi continuare da sola... quando sarai più grande, non ci sarò più io a suggerirtela... eppure dovrai dirla». « Ecco, vedi come mi fai perdere il tempo... sono stanca », disse la bambina, alzando un poco le spalle, ma senza disgiungere le mani, « ti metti a discutere e intanto la preghiera l’avremmo già detta». «Suvvia», ripete Giulia sorridendo questa volta, come suo malgrado, « ricominciamo daccapo : Ave Maria piena di grazia». La bambina ripetè con voce strascicata : « Ave Maria piena di grazia ». « Il signore è teco, tu sei benedetta tra le donne». « Il signore è teco, tu sei benedetta tra le donne». «E benedetto è il frutto del tuo ventre, Gesù». «E benedetto è il frutto del tuo ventre, Gesù». «Posso riposarmi un momento?» domandò la bambina a questo punto. «Perché? », domandò Giulia, «sei già stanca? » « È un’ora che mi tieni cosi, con le mani giunte », disse la bambina separando le mani e guardando al padre, « quando è entrato papà, avevamo già detto metà della preghiera ». Si fregava le braccia con le mani, ostentando dispettosamente e civettuolmente la propria stanchezza. Poi alzò di nuovo le mani, congiungendole e disse: « Sono pronta ». « Santa Maria, madre di Dio », riprese Giulia senza fretta. « Santa Maria, madre di Dio », ripetè la bambina. « Prega per noi peccatori ». «Prega per noi peccatori». «Adesso e nel giorno della nostra morte ». «Adesso e nel giorno della nostra morte ». «Cosi sia». «Cosi sia». « Ma tu, papà, le preghiere non le dici mai ? » domandò la bambina senza transizione. « Le diciamo la sera prima di coricarci », rispose in fretta Giulia. La bambina, però, guardava Marcello con aria interrogativa, e, come gli parve, incredula. Egli si affrettò a confermare : « Si capisce, tutte le sere prima di andare a letto ». « Adesso stenditi e dormi », disse Giulia alzandosi e cercando di metter la bambina supina. Ci riuscì, non senza sforzo, che la bambina non pareva affatto disposta a dormire, e poi le tirò fin sul mento il solo lenzuolo in cui consisteva tutta la copertura del letto. « Ho caldo », disse la bambina dando dei calci nel lenzuolo, « ho tanto caldo ». « Domani andiamo dalla nonna e non avrai più caldo » rispose Giulia. « Dove sta la nonna? » « In collina... e ci fa fresco ». « Ma dove ? » « Te l’ho detto tante volte: Tagliacozzo... è un posto fresco e ci resteremo tutta l’estate». « Ma non ci verranno gli aeroplani ? » « Gli aeroplani non verranno più ». « Perché ? » « Perché la guerra è finita ». « E perché la guerra è finita? » « Perché due non fa tre », disse Giulia bruscamente ma senza malumore, « ora basta con le domande... dormi, perché domani mattina partiamo presto... adesso vado a prenderti la medicina ». Uscì, lasciando il marito solo con la figlia. « Papà », domandò subito la bambina, levandosi a sedere sul letto, « ti ricordi la gatta della gente che abita qua sotto? » « Sì », rispose Marcello alzandosi dalla seggiola e mettendosi a sedere sul bordo del letto. « Ha fatto quattro gattini ». « Ebbene ? » « La governante di quelle bambine mi ha detto che, se lo voglio, possono darmi uno di quei gattini... posso prenderlo?... Così me lo porto a Tagliacozzo ». « Ma quando sono nati questi gattini ? » domandò Marcello. « Avantieri ». « Allora non è possibile », disse Marcello accarezzando il capo alla figlia, « i gattini debbono restare con la madre finché prendono il latte... lo prenderai quando tornerai da Tagliacozzo ». «E se non torniamo da Tagliacozzo?» «Perché non dovremmo tornare? Torniamo alla fine dell’estate », rispose Marcello avvolgendo le dita nei capelli bruni e morbidi della figlia. « Ahi, mi fai male », si lamentò la bambina prontamente, alla prima stretta. Marcello lasciò i capelli e disse sorridendo : « Perché dici che ti ho fatto male?... Lo sai che non è vero ». « E invece mi hai fatto male », ella rispose con enfasi. E quindi, portandosi le mani alle tempie, con gesto caparbiamente femminile. « Adesso mi verrà un grande mal di testa ». « Allora ti tirerò le orecchie », disse Marcello giocosamente. Sollevò con delicatezza i capelli sul piccolo orecchio tondo e roseo e lo tirò appena, scuotendolo come un campanello. « Ahi, ahi, ahi », gridò la bambina con voce acuta, fingendo dolore, il viso tutto soffuso di un leggero rossore, « ahi, ahi, mi fai male ». « Vedi come sei bugiarda », la rimproverò Marcello lasciando l’orecchio, « lo sai che non si debbono dire bugie ». « Questa volta », ella disse giudiziosamente, « posso giurarti che mi hai fatto veramente male ». « Vuoi che ti dia una bambola per la notte », domandò Marcello volgendo lo sguardo al tappeto sul quale erano sparsi i giocattoli. Ella lanciò un’occhiata di tranquillo disprezzo alle bambole e rispose con sufficienza : « Se vuoi ». « Come se voglio? » domandò Marcello sorridendo, «parli come se dovessi fare un piacere a me... non ti fa piacere dormire con una bambola? » « Si, mi fa piacere », ella concesse, « dammi », esitò guardando a tappeto, « dammi quella con la veste rosa ». Marcello si alzò guardò al tappeto : « Sono tutte con la veste rosa ». « C’è rosa e rosa », disse la bambina con impaziente saccenteria, « il rosa di quella bambola è eguale identico al rosa delle rose rosa che sono sul balcone ». « Questa qui ? » domandò Marcello, prendendo dal tappeto la più bella e la più grande delle bambole. « Lo vedi che non capisci nulla », ella disse severamente. Improvvisamente saltò giù dal letto, corse a piedi nudi ad un angolo del tappeto e, raccolta in terra una bambola assai brutta, di stoffa, con la faccia schiacciata e annerita, tornò in fretta a coricarsi dicendo: «Ecco fatto». Questa volta si assestò sotto il lenzuolo, supina, la faccia rosea e placida affettuosamente stretta contro quella sudicia e attonita della bambola. Giulia rientrò portando in mano una bottiglia e un cucchiaio. « Suvvia », disse avvicinandosi, « prendi la medicina ». La bambina non si fece pregare. Ubbidiente, si levò a metà sul letto, tendendo il viso con la bocca aperta, in un gesto di uccello che prenda rimboccata. Giulia le ficcò il cucchiaio in bocca e poi l’inclinò bruscamente, versando il liquido. La bambina si ridistese supina dicendo: «Quanto è cattivo». « Allora, buona notte », disse Giulia chinandosi e baciando la figlia. « Buona notte, mamma, buona notte, papà », disse la bambina con voce acuta. Marcello la baciò a sua volta sulla guancia e poi seguì la moglie. Giulia spense la luce e chiuse la porta. |
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