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Il conformista 269
Alberto Moravia - Il conformista PARTE SECONDA |
CAPITOLO SESTO Lina e Giulia si sarebbero riposate e poi sarebbero andate a visitare le case di moda. Quindi Giulia sarebbe tornata all’albergo e più tardi i Quadri sarebbero venuti a prenderli per andare insieme a cena. Erano le quattro circa, all’ora della cena mancavano più di quattro ore; ma soltanto tre al momento in cui Orlando avrebbe telefonato all’albergo per conoscere l’indirizzo del ristorante. Marcello aveva dunque tre ore per star solo. Quanto era successo in casa di Quadri, gli faceva desiderare la solitudine, se non altro per cercare di comprendere meglio se stesso. Perché, come pensò scendendo la scala, mentre il contegno di Lina, con un marito tanto più vecchio di lei e tutto assorbito dalla politica, non era sorprendente, il proprio, invece, a pochi giorni dal matrimonio, in viaggio di nozze, insieme lo stupiva, lo spaventava e, vagamente, lo lusingava. Sinora aveva creduto di conoscersi abbastanza bene e però di essere in grado di controllarsi, ogni volta che l’avesse voluto. Ma adesso si rendeva conto, non sapeva se con più sgomento o compiacenza, che forse si era sbagliato. Camminò un pezzo da una viuzza all’altra, sbucò finalmente in una larga strada in leggera salita, l’Avenue de la Grande Armée, come lesse sul canto di una casa. E infatti, come levò gli occhi, imprevisto ed enorme, gli apparve il rettangolo ritto dell’Arco di Trionfo che si profilava di fianco, in cima alla strada. Massiccio eppure quasi fantomatico, pareva sospeso nel cielo pallido, forse a causa della caligine estiva che l’inazzurrava. Pur camminando, gli occhi fissi alla mole trionfale, Marcello provò ad un tratto un sentimento nuovo per lui, inebriante, di libertà e di disponibilità; come se, improvvisamente, qualche gran peso che l’opprimeva, gli fosse stato tolto di dosso, e il passo gli si fosse fatto più leggero, quasi volante. Si domandò un momento se dovesse attribuire questo sollievo potente al semplice fatto di trovarsi a Parigi, lontano dalle strettoie solite, di fronte a quel monumento magniloquente: avveniva talvolta di scambiare per moti profondi dell’animo effimere sensazioni di fisico benessere; poi, ripensandoci, capi che quella sensazione derivava, invece, dalla carezza di Lina: se ne accorse dal flusso di pensieri tumultuosi e conturbanti che, al ricordo della carezza, affioravano nella sua mente. Macchinalmente si passò una mano sulla guancia là dove si era posata la palma di lei; e non potè fare a meno di chiudere gli occhi, per dolcezza, come riassaporando il contatto della mano ruvida e intrepida che gli girava intorno il viso, quasi a riconoscerne affettuosamente il contorno. Che cos’era l’amore, si domandò risalendo l’ampio marciapiede, gli occhi rivolti all’Arco di Trionfo, che cos’era l’amore per cui adesso, come si rendeva conto, stava forse per disfare tutta la propria vita, abbandonare la moglie appena sposata, tradire la fede politica, gettarsi allo sbaraglio di un’avventura irreparabile? Ricordò che a questa domanda, molti anni addietro, ad una compagna di università che ostinatamente rifiutava la sua corte, indispettito egli aveva risposto che per lui l’amore era la vacca ferma nel mezzo del prato, a primavera, e il toro che si alzava sulle zampe per montarla. Quel prato, pensò ancora, era il tappeto borghese del salotto di Quadri e Lina era la vacca e lui il toro. Nudi, nonostante il luogo diverso e le membra non bestiali, sarebbero stati in tutto simili ai due animali. E il furore del desiderio, sfogato con maldestra e urgente violenza, sarebbe stato anche lo stesso. Ma qui si fermavano le somiglianze; al tempo stesso cosi ovvie e cosi poco importanti. Perché, per una misteriosa e spirituale alchimia, quel furore si trasformava presto in pensieri e sentimenti lontanissimi, i quali, pur ricevendone il suggello della necessità, non avrebbero in alcun modo potuto esser riportati ad esso soltanto. Il desiderio non era in realtà che l’aiuto decisivo e potente della natura a qualcosa che esisteva prima di essa e senza di essa. La mano della natura che traeva dai visceri dell’avvenire, l’infante tutto umano e morale delle cose future. « In parole povere », pensò, cercando di ridurre e raffreddare l’esaltazione straordinaria che si era impadronita del suo animo, « in parole povere, io desidero abbandonare mia moglie durante il viaggio di nozze, disertare il mio posto durante una missione, per diventare l’amante di Lina e vivere con lei a Parigi. In parole povere», continuò, «io farò certamente queste cose se riconoscerò che Lina mi ama come io la amo, per gli stessi motivi e con la stessa intensità ». Se gli restava qualche dubbio circa la serietà di questa sua decisione, esso scomparve del tutto poiché, giunto al termine dell’Avenue de la Grande Armeé, levò gli occhi verso l’Arco di Trionfo. Adesso, infatti, richiamato per analogia dalla vista di quel monumento innalzato a celebrare le vittorie di una tirannide gloriosa, gli pareva quasi di provare del rimpianto per l’altra tirannide che aveva sinora servito e che si preparava a tradire. Alleggerita e resa quasi innocente dal senso anticipato di questo tradimento, la parte che aveva fino a quel mattino recitata gli appariva ora più comprensibile e però più accettabile; non più, come gli era apparsa sinora, il frutto di una volontà esterna di normalità e di riscatto, bensì quasi di una vocazione, o, per lo meno, di una inclinazione non del tutto artificiosa. D’altronde, questo rimpianto cosi distaccato e già retrospettivo era un indizio sicuro, appunto, dell’irrevocabilità della sua decisione. Aspettò un lungo momento che il carosello delle macchine che giravano in tondo intorno al monumento si interrompesse e, attraversata la piazza, andò direttamente all’Arco, penetrando, il cappello in mano, sotto la volta, dove era la lapide del Soldato Ignoto. Ecco, sulle pareti dell’Arco, gli elenchi delle battaglie vinte, ciascuna delle quali aveva significato per innumerevoli uomini fedeltà e dedizioni del genere di quelle che l’avevano legato, fino a pochi minuti prima, al suo governo; ecco la tomba vegliata dalla fiamma perennemente accesa, simbolo di altri sacrifici non meno completi. Leggendo i nomi delle battaglie napoleoniche, non potè fare a meno di ricordarsi della frase di Orlando: «Tutto per la famiglia e per la patria » ; e capi ad un tratto che ciò che lo distingueva dall’agente cosi convinto e, insieme, cosi impotente a giustificare razionalmente la propria convinzione, era soltanto la sua capacità di scelta, a cui faceva la spia la malinconia che lo perseguitava da tempo immemorabile. Si, pensò, egli aveva scelto in passato e ora di nuovo si apprestava a scegliere. E la sua malinconia era la malinconia, appunto, mischiata di rimpianto che suscita il pensiero delle cose che avrebbero potuto essere e a cui, scegliendo, bisognava per forza rinunziare. Usci da sotto l’Arco, aspettò di nuovo che il passaggio delle macchine si interrompesse e raggiunse il marciapiede de l’Avenue des Champs Elysées. Gli sembrò che l’Arco stendesse come un’ombra invisibile sulla ricca e festosa strada che ne discendeva; e che un nesso indubitabile corresse tra quel monumento bellicoso e la prosperità pacifica e allegra della folla che popolava i marciapiedi. Pensò allora che anche questo era un aspetto di ciò a cui rinunziava : una grandezza sanguinosa e ingiusta che si mutava più tardi in letizia e in ricchezza ignara delle origini, un sacrificio cruento che, col tempo, diventava, per le generazioni posteriori, potenza, libertà e agio. Ecco altrettanti argomenti a favore di Giuda, pensò scherzosamente. Ma ormai la decisione era presa e provava un solo desiderio: pensare a Lina e perché e come l’amasse. L’animo pieno di questo desiderio, discese pian piano l’Avenue des Champs Elysées, fermandosi ogni tanto a osservare i negozi, i giornali esposti ai chioschi, la gente seduta ai caffè, i cartelloni dei cinema, le insegne dei teatri. La folla che si addensava sui marciapiedi lo circondava d’ogni parte con un pullulante movimento che gli pareva quello stesso della vita. Le quattro file di macchine, due per ogni verso, che risalivano e discendevano la larghissima strada, gli trascorrevano nell’occhio destro; nell’occhio sinistro si alternavano i ricchi negozi, le liete insegne, i caffè gremiti. Via via che camminava affrettava il passo, quasi desideroso di lasciarsi indietro l’Arco di Trionfo che, ormai, come si accorse ad un certo momento voltandosi, si era fatto remoto e, per la lontananza e la caligine estiva, del tutto immateriale. Come giunse in fondo alla strada, cercò una panchina all’ombra degli alberi dei giardini e vi sedette con sollievo, contento di potersi dedicare in pace al pensiero di Lina. Volle riandare con la memoria alla prima volta che aveva avvertito la sua esistenza: alla visita alla casa di tolleranza a S. Perché la donna intravveduta nella sala comune a fianco dell’agente Orlando gli aveva ispirato un sentimento tanto nuovo e violento? Rammentò che era stato colpito dalla luminosità della fronte di lei e capì che ciò che l’aveva attratto prima in quella donna e poi, compiutamente, in Lina era la purezza che gli era sembrato di intravedere mortificata e profanata nella prostituta e trionfante in Lina. Il ribrezzo della decadenza, della corruzione e dell’impurità che l’aveva perseguitato tutta la vita e che il suo matrimonio con Giulia non aveva mitigato, adesso comprendeva che soltanto la luce radiosa di cui era circondata la fronte di Lina, poteva dissiparlo. Gli parve che la coincidenza dei nomi, Lino che gli aveva ispirato per la prima volta quel ribrezzo e Lina che ne lo liberava, fosse un segno fausto. Cosi, naturalmente, spontaneamente, per sola forza d’amore, egli ritrovava attraverso Lina, la normalità tanto sognata. Ma non la normalità quasi burocratica che aveva perseguito per tutti quegli anni, bensì altra normalità di specie quasi angelica. Di fronte a questa normalità luminosa ed eterea, la pesante bardatura dei suoi impegni politici, del suo matrimonio con Giulia, della sua vita ragionevole e smorta di uomo d’ordine, si rivelava nient’altro che un simulacro ingombrante da lui adottato in inconsapevole attesa di un più degno destino. Ora egli se ne liberava e ritrovava se stesso attraverso gli stessi motivi che gliel’avevano fatto, suo malgrado, adottare. Mentre, seduto sulla panchina, si abbandonava a questi pensieri, l’occhio gli cadde improvvisamente su una grossa macchina che, scendendo in direzione di Piazza della Concordia, pareva gradualmente rallentare la marcia; e infatti, a poca distanza da lui, si fermò presso il marciapiede. Era una macchina nera e vecchia seppure di lusso, di una foggia antiquata che sembrava accusata dalla lucentezza e forbitezza quasi eccessiva delle nichelature e degli ottoni della carrozzeria. Una Rolls Royce, come pensò; e tutto ad un tratto, fu assalito da una impaurita apprensione, mischiata, non sapeva perché, di un orrendo senso di dimestichezza. Dove e quando aveva già veduto quella macchina? L’autista, un uomo magro e brizzolato, in divisa blu scura, appena la macchina si fu fermata, fu lesto a scendere e a correre ad aprire lo sportello e, allora, da quel gesto, scaturì nella memoria di Marcello una immagine in risposta alla sua domanda: la stessa macchina, dello stesso colore e della stessa marca, ferma all’angolo della strada, sul viale vicino alla scuola, e Lino che si sporgeva ad aprirgli lo sportello affinché egli salisse al suo fianco. Intanto, mentre l’autista se ne stava presso lo sportello, il berretto in mano, una gamba maschile, in pantalone di flanella grigia, terminata nel piede calzato di una scarpa di un giallo forbito e lucente come gli ottoni della macchina, si sporgeva con precauzione, poi l’autista tese la mano, e la persona intera apparve a Marcello mentre scendeva faticosamente sul marciapiede. Era un uomo anziano, come giudicò; magro e molto alto, dalla faccia scarlatta e dai capelli forse ancora biondi, vacillante nel passo che aiutava appoggiandosi su un bastone dalla punta gommata, e tuttavia singolarmente giovanile. Marcello l’osservò attentamente mentre si avvicinava con lentezza alla panchina, domandandosi donde venisse al vecchio quell’aria di gioventù e poi capi: dalla foggia della pettinatura, con la riga da una parte, e dalla cravatta a farfalla verde che portava al colletto di una camicia vivace, a strisce rosa e bianche. Il vecchio camminava con gli occhi rivolti in basso, ma, come fu giunto alla panchina, li alzò e Marcello vide che erano azzurri, limpidi, di una durezza ingenua, anch’essi giovanili. Egli sedette finalmente, a fatica, accanto a Marcello, e l’autista, che l’aveva seguito passo passo, gli porse subito un piccolo involto di carta bianca. Quindi, fatto un breve inchino, tornò alla macchina e vi sali, restando fermo al suo posto, dietro il parabrìse. Marcello che aveva seguito con gli occhi l’arrivo del vecchio, adesso li teneva bassi, riflettendo. Avrebbe voluto non aver mai provato tanto orrore alla sola vista di una macchina simile a quella di Lino; e già questo era motivo per lui di turbamento. Ma ciò, che lo spaventava di più era il vivo, torbido, acre senso di soggezione, di impotenza e di servitù che si accompagnava al ribrezzo. Era come se tutti quegli anni non fossero passati o, peggio, fossero passati invano, ed egli fosse ancora il ragazzo di allora e nella macchina l’aspettasse Lino ed egli si avviasse a salirvi, ubbidiente all’invito dell’uomo. Gli pareva di subire una volta di più l’antico ricatto, ma questa volta non era più Lino che glielo faceva, con l’esca di una rivoltella, bensì la sua stessa carne memore e turbata. Atterrito da questo divampare improvviso e conturbante di un fuoco che credeva spento, trasse un sospiro e si frugò meccanicamente per le tasche cercando le sigarette. Subito una voce gli disse, in francese: « Sigarette?... Eccole ». Si voltò e vide che il vecchio, con la mano rossa un po’ tremula, gli porgeva un pacchetto, intatto, di sigarette americane. Intanto lo guardava con espressione singolare, insieme imperiosa e benevola. Marcello, assai imbarazzato, senza ringraziare, prese il pacchetto, l’apri in fretta, ne tolse una sigaretta, restituì il pacchetto al vecchio. Ma questi afferrando il pacchetto, e cacciandoglielo con mano autoritaria nel taschino della giacca, disse in tono allusivo: « Sono per voi... potete tenerle ». Marcello senti di arrossire e poi di impallidire per non sapeva che mescolanza di ira e di vergogna. Per fortuna gli occhi gli andarono alle proprie scarpe: erano bianche di polvere e sformate dal molto camminare. Allora, gli albeggiò nella mente che il vecchio, probabilmente, lo scambiava per qualche miserabile o disoccupato; e la sua collera cadde. Senza ostentazione, semplicemente, tolse il pacchetto dal taschino e lo posò sulla panchina, tra loro due. |
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