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Il conformista 221


Alberto Moravia - Il conformista

PARTE SECONDA / CAPITOLO TERZO (cont.)
Marcello usci dalla cabina e si avviò verso l’ascensore. Mentre entrava nella cabina, udì per la terza volta il solito servitore chiamare ad alta voce il suo nome e questa volta si meravigliò veramente. Gli venne quasi la speranza di un’intervento sopraumano, come se, servendosi del corno di ebanite nera del telefono, la voce di un oracolo fosse per dirgli una parola decisiva sulla sua vita. Con cuore sospeso, tornò sui suoi passi, penetrò per la terza volta nella cabina.
« Sei tu Marcello? » domandò la voce carezzevole, languida della moglie.
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« Ah sci tu », egli non potè fare a meno di esclamare, non sapeva se con delusione o con sollievo.
«Si, si capisce... chi credevi che fosse?»
« Niente... siccome aspettavo una telefonata... ».
« Che fai ? » ella domandò con un’inflessione di tenerezza struggente.
« Nulla... stavo appunto venendo su, per avvertirti che uscivo e sarei rientrato tra un’ora».
<( No, non venir su... sto per andare nel bagno... va bene, allora ti aspetto tra un’ora, nell’atrio dell’albergo ».
« Anche un’ora e mezza ».
« Un’ora e mezza, va bene... ma non tardare, ti prego ».
« L’ho detto per non farti aspettare... ma vedrai che sarà un’ora».
Ella disse in fretta, come temendo che Marcello se ne andasse : « Mi vuoi bene ? »
« Ma si capisce, perché me lo domandi? »
« Cosi... se ora tu fossi presso di me, mi daresti un bacio? »
«Certo... vuoi che salgo?»
«No, no, non salire... e dimmi... ».
« Che cosa ? »
« Dimmi, ti piacevo stanotte? »
« Che domande, Giulia », egli esclamò un po’ vergognoso. Ella soggiunse subito : « Perdonami... non so neppure io quel che mi dico... allora mi vuoi bene? »
« Ti ho già detto di si ».
« Perdonami... allora, siamo intesi, ti aspetto tra un’ora e mezza... arrivederci, amore ».
Questa volta, come pensò riattaccando il ricevitore, non poteva aspettarsi più alcuna telefonata.
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Andò alla porta e, spingendo il tamburo di mogano e di cristallo, usci nella strada.
L’albergo dava sul lungosenna, Come si affacciò sulla soglia, restò un momento immobile, sorpreso dal lieto spettacolo della città e della giornata serena. A perdita d’occhio, lungo il parapetto del fiume, si alzavano dai marciapiedi grandi alberi fronzuti^ carichi di brillante fogliame primaverile. Erano alberi che non conosceva: forse ippocastani. Il sole della bella giornata splendeva su ogni foglia tramutato in verdezza chiara, luminosa, sorridente. Allineati sui parapetti, gli scaffali dei rivenditori offrivano file di libri usati e cataste di stampe; gente camminava senza fretta lungo gli scaffali, sotto gli alberi, tra lo svariare scherzoso del sole e delle ombre, in un’aria suadente di tranquillo passeggio domenicale. Marcello attraversò la strada e andò ad affacciarsi al parapetto, tra uno scaffale e l’altro. Al di là del fiume, si vedevano i palazzi grigi, coi tetti a mansarda, dell’altra sponda; più lontano le due torri di Notre-Dame; più lontano ancora guglie di altre chiese, profili di caseggiati, di tetti, di comignoli. Notò che il cielo era più pallido e più ampio che in Italia, come risuemante dell’invisibile e brulicante presenza dell’immensa città distesa sotto la sua volta. Abbassò gli occhi al fiume : incassato tra i muraglio- ni di pietra a sghembo, fiancheggiato di banchine pulite, pareva, in quel punto, un canale; l’acqua, grassa e ricca, di un verde torbido, inanellava i piloni bianchi del ponte più vicino di gorghi scintillanti. Una chiatta nera e gialla scivolava rapida e senza schiuma su quell’acqua densa, il fumaiolo eruttava fumo a sbuffi impetuosi, si vedevano a prua due uomini che parlavano, uno in camiciotto azzurro e l’altro in canottiera bianca. Un passero grasso e fa232
miliare si posò sul parapetto accanto al suo braccio, cinguettò vivacemente come per dirgli qualche cosa e poi rivolò in direzione del ponte. Un giovane smilzo, forse uno studente, malvestito, col basco in capo e un libro sotto il braccio, fermò la sua attenzione: andava in direzione di Notre-Dame, senza fretta, ogni tanto soffermandosi a guardare i libri e le stampe. Osservandolo, lo colpi la propria disponibilità, nonostante tutti gli impegni che l’opprimevano: avrebbe potuto essere quel giovane e allora il fiume, il cielo, la Senna, gli alberi, Parigi intera avrebbero avuto per lui un altro senso. Vide nello stesso momento venire piano sull’asfalto un taxi libero e lo fermò con un gesto che quasi lo stupì: non ci aveva pensato un momento prima. Sali dando l’indirizzo del caffè dove Orlando l’aspettava.
Riverso sui cuscini, guardò alle strade di Parigi, mentre il taxi correva. Notò l’allegria della città, tutta grigia e tutta vecchia e ciononostante sorridente e leggiadra, piena di una dolcezza intelligente che pareva entrare a folate per i finestrini insieme con il vento della corsa. Le guardie ritte ai crocicchi gli piacquero, non sapeva neppur lui perché: gli sembravano eleganti, con il loro chepi tondo e duro, la corta mantellina, le gambe sottili. Una di esse si affacciò al finestrino per dire qualche cosa all’autista : un biondino energico e pallido, il fischietto stretto tra i denti, il braccio armato di bastone bianco teso indietro a fermare il traffico. Gli piacevano i grandi ippocastani che levavano i rami verso i vetri scintillanti delle vecchie facciate grige; gli piacevano le insegne dei negozi, antiquate, con le scritte in lettere bianche e piene di svolazzi su fondi marroni o vinosi; gli piaceva persino la foggia inestetica dei taxi e degli autobus con quei cofani che parevano musi
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abbassati di cani che andassero odorando il suolo. Il taxi, dopo una breve sosta, passò davanti il tempio neoclassico della Camera dei Deputati, imboccò il ponte, si precipitò di gran corsa verso l’obelisco di Piazza della Concordia. Cosi, pensò, guardando all’immensa piazza militare, chiusa in fondo dai portici allineati come reggimenti di soldati per una parata, cosi questa era la capitale di quella Francia che bisognava distruggere. Adesso gli pareva di amare da gran tempo la città che si stendeva davanti ai suoi occhi, da molto prima di quel giorno in cui vi si trovava per la prima volta. E tuttavia proprio questa ammirazione per la bellezza maestosa, gentile e lieta della città, confermava in lui il senso tetro del dovere che si accingeva a compiere. Forse se Parigi fosse stata meno bella, pensò ancora, egli avrebbe potuto eludere quel dovere, fuggire, liberarsi del destino. Ma la bellezza della città lo riconfermava nella sua parte ostile e negativa; allo stesso modo dei molti aspetti ripugnanti della causa per la quale militava. Pensando queste cose, si accorgeva di spiegare a se stesso l’assurdità della propria condizione. E capiva che la spiegava in questo modo perché non c’era altro modo di spiegarla e dunque di accettarla liberamente e consapevolmente.
Il taxi si fermò e Marcello discese davanti il caffè designato da Orlando. I tavoli che si allineavano sui marciapiedi, come l’aveva avvertito l’agente, erano affollati; ma poiché entrò nel caffè, scopri che era deserto. Orlando sedeva ad un tavolino nella rientranza di una finestra. Appena lo vide, si alzò facendogli un cenno di richiamo.
Marcello si avvicinò senza fretta e sedette di fronte all’agente. Attraverso il vetro della finestra, si vedevano le spalle delle persone sedute di fuori, all’om234
bra degli alberi, e più lontano, parte del colonnato e del frontone triangolare della chiesa della Maddalena. Marcello ordinò un caffè. Orlando aspettò che il cameriere si fosse allontanato e poi disse : « Voi, dottore, forse credete che vi daranno un espresso come in Italia, ma è un’illusione... a Parigi non esiste il caffè buono come da noi... vedrete, dottore, che brodaglia vi porteranno ».
Orlando parlava con il solito tono rispettoso, bonario, tranquillo. «Una faccia onesta», pensò Marcello sbirciando l’agente mentre si versava con un sospiro ancora un po’ di quel deprecato caffè, « una faccia di fattore, di mezzadro, di piccolo proprietario rustico ». Aspettò che Orlando avesse bevuto il caffè e poi domandò : « Di dove siete, Orlando ? »
«Io? Della provincia di Palermo, dottore».
Marcello, senza motivo, aveva sempre pensato che Orlando fosse nativo dell’Italia centrale, dell’Um- bria o delle Marche. Ora, guardandolo meglio, capi che era stato tratto in errore dall’aspetto rustico e quadrato della persona dell’agente. Ma il viso non aveva traccia della mitezza umbra o della placidità marchigiana. Era si una faccia onesta e bonaria, ma gli occhi neri e come stanchi avevano una gravità femminile e quasi orientale che non era di quei paesi; né era mite o placido sotto il piccolo naso malconformato, il sorriso della larga bocca senza labbra. Disse a fior di labbra : « Non l’avrei mai pensato... ».
<( Di dove mi credevate ? » domandò Orlando quasi con vivacità.
«Dell’Italia centrale».
Orlando parve riflettere un momento; poi disse con franchezza, seppure con rispetto : « Anche voi,
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dottore, scommetto che partecipate al solito pregiudizio ».
« Quale pregiudizio ? »
« Il pregiudizio del settentrione contro l’Italia meridionale e in particolare contro la Sicilia... voi, dottore, non volete dirlo, ma è cosi». Orlando scosse il capo, addolorato. Marcello protestò: «Veramente
non pensavo affatto a questo... vi credevo deiritalia centrale per l’apparenza fisica».
Ma Orlando non l’ascoltava più: «Vi dirò: è uno stillicidio », riprese con enfasi, evidentemente soddisfatto della parola insolita. « Per strada, in casa, dappertutto, anche in servizio... certi colleghi del nord arrivano a rimproverarci perfino gli spaghetti... io rispondo: prima di tutto gli spaghetti ormai li mangiate anche voi e più di noi; e poi: quanto è dolce la vostra polenta!... »
Marcello non disse nulla. In fondo non gli dispiaceva che Orlando parlasse di cose non attinenti alla missione: era una maniera di eludere la familiarità su un argomento terribile e che non la sopportava. Orlando disse ad un tratto con forza: «La Sicilia: la grande calunniata... per esempio la mafia... sapeste che cosa non ci sanno dire su la mafia... per loro non c’è siciliano che non sia mafioso... a parte il fatto che ignorano tutto della mafia».
Marcello disse: «La mafia non esiste più».
« Si capisce, non esiste più », disse Orlando con aria non del tutto convinta, « ma, dottore, anche se esistesse ancora, credete a me, sarebbe sempre meglio, infinitamente meglio degli analoghi fenomeni del nord, i teppisti a Milano, i barabba a Torino... questi sono dei vigliacchi, sfruttatori di donne, ladruncoli, prepotenti coi deboli... la mafia, se non altro, era una scuola di coraggio ».
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« Scusatemi, Orlando », disse Marcello freddamente, « ma voi dovete spiegarmi in che cosa consistesse la scuola di coraggio della mafia».
La domanda sembrò sconcertare Orlando, non tanto per la freddezza quasi burocratica del tono di Marcello quanto per la complessità dell’argomento che non ammetteva una risposta immediata ed esauriente. « Eh, dottore », disse con un sospiro, « voi mi fate una domanda alla quale non è facile rispondere... il coraggio in Sicilia è la prima qualità di un uomo d’onore e la mafia si chiama da sé onorata società... cosa volete che vi dica: chi non c’è stato e non ha veduto con i suoi occhi è difficile che possa capire. Immaginatevi, dottore, un locale, bar, caffè, osteria, trattoria, dove si trovasse riunito un gruppo di uomini armati e ostili al mafioso... ebbene costui che faceva?... Non si raccomandava ai carabinieri, non lasciava il paese... usciva, invece, di casa sua, vestito a nuovo, sbarbato di fresco, si presentava in quel locale, solo e disarmato, e diceva quelle due o tre parole che bastavano e ci volevano... ora che credete? Tutti quanti, il gruppo dei nemici, gli amici, il paese intero, avevano gli occhi su di lui... lui lo sapeva e sapeva pure che se avesse mostrato con lo sguardo non tanto fermo, con la voce non abbastanza calma, con il viso non del tutto sereno che aveva paura, era finito... perciò tutto il suo studio era nel superare quest’esame: sguardi decisi, voce tranquilla, gesti misurati, colorito normale... sono cose che a dirle sembrano facili... ma bisogna trovarcisi per capire quanto, invece, siano difficili... dottore questa era, tanto per fare un esempio, la scuola di co- raggio della mafia».
Orlando che si era infervorato parlando, ebbe a questo punto uno sguardo freddo e incuriosito in
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direzione del viso di Marcello, come a dire : « Ma non è della mafia che dovevamo parlare, noi due, se non erro». Marcello notò lo sguardo e, in maniera ostentata, gettò un’occhiata all’orologio che teneva al polso. « Ora parliamo un po’ delle cose nostre, Orlando », disse con autorità, « io mi incontro oggi con il professor Quadri... secondo le istruzioni, debbo indicarvi il professore in modo che voi possiate accertarvi della sua identità... questa è la mia parte, nevvcro ? »
«Si, dottore».
« Ebbene, io inviterò il professor Quadri a cena o al caffè questa sera... io non posso ancora dirvi dove... ma voi telefonatemi all’albergo stasera verso le sette e allora saprò il luogo... quanto al professor Quadri, stabiliamo fin d’ora una maniera per designarlo... per esempio diciamo che il professor Quadri sarà la prima persona a cui stringerò la mano entrando nel caffè o nel ristorante... va bene cosi? »
« Intesi, dottore ».
« E ora bisogna che me ne vada », disse Marcello guardando di nuovo l’orologio. Posò sul tavolo il prezzo dei caffè, si alzò e usci, seguito a distanza dall’agente.
Sul marciapiede, Orlando abbracciò con lo sguardo il fitto traffico della strada in cui due file di macchine si muovevano quasi al passo in due direzioni opposte, e disse in tono enfatico: «Parigi».
« Non è la prima volta che voi ci venite, nevve- ro, Orlando ? » domandò Marcello cercando con gli occhi, tra le macchine, un taxi libero.
«La prima volta?» disse l’agente con una sua melensa fierezza, « altro che la prima volta... provatevi un po’, dottore, a fare una cifra ».
« Ma, non saprei ».
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«Dodici», disse l’agente, «con questa la tredicesima ».
L’autista di un taxi colse a volo lo sguardo di Marcello e venne a fermarsi davanti a lui. « Arrivederci Orlando », disse Marcello salendo, « allora aspetto una vostra telefonata questa sera». L’agente fece con la mano un segno di intesa. Marcello sali nel taxi dando l’indirizzo dell’albergo.
Ma, mentre il taxi correva, le ultime parole dell’agente, quel dodici e quel tredici (dodici volte a Parigi e questa è la tredicesima) sembravano prolungare il loro suono nelle sue orecchie e destargli nella memoria echi remoti. Come qualcuno che si affacci ad una grotta gridando e scopra che la propria voce si ripercuote in profondità insospettate. Poi, tutto ad un tratto, richiamato da quei numeri, ricordò che avrebbe indicato Quadri all’agente con una stretta di mano e comprese perché, invece di informare semplicemente Orlando che Quadri era riconoscibile dalla gobba, fosse ricorso all’accorgimento del saluto: erano le lontane, infantili reminiscenze della storia sacra che gli avevano fatto dimenticare la deformità del professore, tanto più conveniente della stretta di mano ai fini di un sicuro riconoscimento. Dodici erano gli apostoli e il tredicesimo era colui, appunto, che abbracciava il Cristo per farlo riconoscere dalle guardie convenute nell’orto ad arrestarlo. Adesso, le figure tradizionali delle stazioni della Passione, tante volte contemplate nelle chiese, si sovrapponevano allo scenario moderno di un ristot rante francese, coi tavolini imbanditi, i clienti seduti a mangiare, lui che si alzava e andava incontro a Quadri tendendogli la mano e l’agente Orlando che, seduto in disparte, li osservava ambedue. Poi la figura di Giuda, il tredicesimo apostolo, si confondeva
con la propria, ne sposava i contorni, era la sua.
Gli venne una volontà speculativa, quasi divertita, di riflessione di fronte a questa scoperta. «Probabilmente Giuda fece quello che fece per gli stessi motivi per cui lo faccio io », pensò, « e anche lui dovette farlo sebbene non amasse farlo perché era necessario, dopo tutto, che qualcuno lo facesse... ma perché spaventarsi? Ammettiamo senz’altro che io abbia scelto la parte di Giuda... e con questo? »
Si accorse di non essere, infatti, per nulla spaventato. Al piu, come si rese conto, pervaso dalla solita fredda malinconia, in fondo per nulla spiacevole. Pensò ancora, non per giustificarsi ma per approfondire il paragone e riconoscerne i limiti, che Giuda era, si, simile a lui, ma soltanto fino ad un certo punto. Fino alla stretta di mano; forse anche, se si voleva, sebbene egli non fosse un discepolo di Quadri, fino al tradimento inteso in senso molto generico. Poi tutto cambiava. Giuda si impiccava o almeno si pensava che non potesse non impiccarsi, perché quegli stessi che gli avevano suggerito e pagato il tradimento, poi non avevano il coraggio di sostenerlo e di giustificarlo; ma lui non si sarebbe ucciso e neppure dato alla disperazione perché dietro di lui... egli vide la folla convenuta nelle piazze ad applaudire chi lo comandava e, implicitamente, a giustificare lui che ubbidiva. Finalmente pensò che non riceveva nulla, in senso assoluto, per quanto faceva. Altro che trenta denari. Soltanto il servizio, come diceva l’agente Orlando. L’analogia trascolorava, si dissolveva, non lasciando dietro di sé che una traccia di orgogliosa e sufficiente ironia. Semmai, concluse, quel che importava era che il paragone gli fosse venuto in mente, che l’avesse sviluppato e che, per un momento, l’avesse trovato giusto.
 
 
Alberto Moravia
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