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Il conformista 221


Alberto Moravia - Il conformista

PARTE SECONDA
CAPITOLO TERZO

Dopo avere incaricato il portiere dell’albergo di chiamargli il numero di Quadri, Marcello andò a sedersi in un angolo dell’atrio. Era un albergo grande e l’atrio era molto vasto, con colonne che ne sostenevano le volte, gruppi di poltrone, vetrine in cui erano esposti manufatti di lusso, scrivanie e tavoli; molta gente andava e veniva dall’ingresso alla gabbia dell’ascensore, dal banco del portiere a quello della direzione, dall’uscio del ristorante ai salotti che si aprivano oltre le colonne. Marcello avrebbe voluto distrarsi, nell’attesa, con lo spettacolo di quest’atrio cosi allegro e popolato, ma, come tirato giù verso il fondo della memoria dall’angoscia presente, il pensiero gli si volse, quasi suo malgrado, alla prima e sola visita che aveva fatto a Quadri molti anni prima. Marcello era allora studente e Quadri era il suo professore: egli si era recato alla casa di Quadri, un vecchio palazzo rosso nei pressi della stazione, per consultarlo sulla tesi di laurea. Appena entrato, Marcello era stato colpito dall’enorme quantità di libri accumulati in ogni angolo dell’appartamento. Già nell’anticamera, aveva notato certe vecchie tende che parevano nascondere usci; ma, scostandole, aveva scoperto file e file di libri allineati dentro rientranze delle pareti. La cameriera l’aveva preceduto per un lunghissimo e tortuoso corridoio che sembrava girare intorno il cortile del palazzo e anche il corridoio, da ambo le parti, era ingombrato da scaffali pieni di libri e di carte. Finalmente, introdotto nello studio di Quadri, Marcello si era trovato tra quattro pareti anch’esse fittamente gremite di libri, dal pavimento fino al soffitto. Altri libri erano sulla scrivania, disposti l’uno sull’altro in due cataste ordinate, tra le quali, come ad una feritoia, si affacciava il viso barbuto del professore. Marcello aveva subito notato che Quadri aveva un viso curiosamente piatto e asimmetrico, simile ad una maschera di cartapesta dagli occhi orlati di rosso e dal naso triangolare, alla quale, sulla parte inferiore, fossero stati incollati in maniera sommaria una barba e un paio di baffi posticci. Anche sulla fronte, i capelli troppo neri e come madidi suggerivano l’idea di una parrucca male applicata. Tra i baffi a spazzola e la barba a scopette, ambedue di una nerezza sospetta, si intravvedeva una bocca molto rossa, dalle labbra informi; e Marcello non aveva potuto fare a meno di pensare che tutto quel pelo maldistribuito nascondesse qualche deformità come, per esempio, una completa mancanza di mento oppure una spaventosa cicatrice. Era, insomma, un viso in cui non c’era nulla di sicuro e di vero, tutto falso, proprio una maschera. Il professore si era alzato per accogliere Marcello e in questo gesto aveva rivelato la sua piccola statura e la gobba o, meglio, la deformazione della spalla sinistra, che aggiungeva un’aria dolorosa alla eccessiva dolcezza e affettuosità dei modi. Stringendogli la mano attraverso i libri, Quadri, con gesto di miope, aveva guardato il visitatore al disopra delle forti lenti; cosi che per un momento Marcello aveva avuto l’impressione di essere scrutato non da due ma da quattro occhi. Aveva anche notato lo stile antiquato del vestito di Quadri : giacca da finanziere, nera, con risvolti di seta, pantaloni a righe, neri anch’essi, camicia bianca col collo e i polsini inamidati, catena d’oro sul panciotto. Marcello non aveva alcuna simpatia per Quadri: lo sapeva antifascista e, nella sua mente, l’antifascismo di Quadri, il suo aspetto imbelle, malsano e laido, la sua erudizione, i suoi libri, tutto, insomma, gli pareva che contribuisse a formare l’immagine convenzionale e continuamente additata al disprezzo dalla propaganda del partito, dell’intellettuale negativo e impotente. D’altra parte, la straordinaria dolcezza di Quadri ripugnava a Marcello come un tratto di falsità: gli pareva impossibile che un uomo potesse essere cosi dolce senza menzogna e senza secondi fini.
Quadri aveva accolto Marcello con le solite espressioni di affettuosità quasi smancerosa. Spesso intercalando parole come: «caro figliuolo», «figliuolo mio», «figliuolo caro», agitando sopra i libri le piccole mani bianche, gli aveva mosso una quantità di domande prima sulla sua famiglia e poi su di lui personalmente. Alla notizia che il padre di Marcello era ricoverato in una clinica per malattie mentali, aveva esclamato : « Oh povero figliuolo, non lo sapevo, che sventura, che terribile sventura... e la scienza non può far nulla per ricondurlo alla ragione? » Ma non aveva ascoltato la risposta di Marcello ed era passato subito ad altro argomento. Aveva una voce di gola, modulata e armoniosa, dolcissima, piena di apprensiva sollecitudine. Curiosamente, però, attraverso questa sollecitudine cosi svenevole e dichiarata, come una filigrana nella trasparenza di una carta, Marcello aveva creduto di indovinare una completa indifferenza : Quadri, nonché interessarsi veramente a lui, forse non lo vedeva neppure. Marcello era stato anche colpito dalla mancanza di sfumature e di sbalzi del tono di Quadri: parlava sempre con lo stesso accento uniformemente affettuoso e sentimentale, si trattasse di cose che richiedevano quest’accento come di altre che non lo richiedevano affatto. Quadri, a conclusione delle numerose domande, si era finalmente informato se Marcello fosse fascista; e avutane una risposta affermativa, senza cambiar tono né dare a vedere alcuna reazione, aveva spiegato in maniera quasi casuale quanto fosse difficile per lui i cui sentimenti antifascisti erano ben noti, continuare in un regime come quello fascista l’insegnamento di materie quali la filosofia e la storia. A questo punto Marcello, imbarazzato, aveva cercato di portare il discorso sul motivo della sua visita. Ma Quadri l’aveva subito interrotto : « Forse lei si domanderà perché mai io le dica tutte queste cose... caro figliuolo, gliele dico non oziosamente né per sfogo personale... non mi permetterei di farle perdere il tempo che deve dedicare agli studi... gliele dico per giustificare in qualche modo il fatto che non potrò occuparmi né di lei né della sua tesi: lascio l’insegnamento ».
« Lei lascia l’insegnamento », aveva ripetuto Marcello sorpreso.
« Si », aveva confermato Quadri stropicciandosi con gesto abituale una mano sulla bocca e sui baffi. « Sebbene con dolore, con vero dolore perché sinora avevo dedicato tutta la mia vita a voialtri, mi vedo costretto a lasciare la scuola ». Dopo un momento, senza enfasi, con un sospiro, il professore aveva soggiunto: «Eh, si, ho deciso di passare dal pensiero all’azione... forse la frase non le sembrerà nuova, ma rispecchia fedelmente la mia situazione».
Li per li, Marcello aveva quasi sorriso. Gli era sembrato, infatti, comico questo professor Quadri, questo piccolo uomo in finanziera, gobbo, miope, barbuto, che tra le cataste dei suoi libri, seduto in poltrona, gli dichiarava che aveva deciso di passare dal pensiero all’azione. Il senso della frase, tuttavia, non era dubbio: Quadri, dopo esser stato per anni oppositore passivo, chiuso nei suoi pensieri e nella sua professione, aveva deciso di passare alla politica attiva, forse di darsi alla cospirazione. Marcello, con subitaneo soprassalto di antipatia, non aveva potuto fare a meno di avvertire, con freddezza minacciosa: « Lei fa male a dirlo a me... io sono fascista e potrei anche denunziarla ».
Ma Quadri gli aveva risposto, con estrema dolcezza, passando dal lei al tu : « So che sei un buono, caro figliuolo, un onesto e bravo figliuolo e so che non faresti mai una cosa di questo genere ».
« Che il diavolo se lo porti », aveva pensato Marcello indispettito. E, con sincerità, aveva risposto: « Potrei anche farlo... l’onestà, per noi fascisti, consiste appunto, nel denunziare e mettere nell’impossibilità di nuocere persone come lei ».
Il professore aveva scosso la testa : « Caro figliuolo, tu sai, mentre parli, che ciò che dici non è vero... lo sai, o meglio lo sa il tuo cuore... e infatti tu, da quel giovane onesto che sei, hai voluto avvertirmi... un altro, sai che avrebbe fatto, un vero delatore? Avrebbe finto di approvarmi e poi, una volta che mi fossi compromesso con qualche dichiarazione veramente imprudente, mi avrebbe denunziato... ma tu mi hai avvertito».
« L’ho avvertita », aveva risposto con durezza Marcello, « perché credo che lei non sia capace di ciò che chiama azione... perché non si contenta di fare il professore?... Di quale azione parla? »
«L’azione... non importa dir quale », aveva risposto Quadri sogguardandolo fissamente. Marcello, a queste parole, non aveva potuto fare a meno di levare gli occhi verso le pareti, agli scaffali pieni di libri. Quadri aveva colto a volo quello sguardo e, sempre dolcissimamente, aveva soggiunto: «Ti pare strano, nevvero, che io parli d’azione?... Tra tutti questi libri?... Tu in questo momento pensi: “ ma di che azione va cianciando questo piccolo uomo gobbo, storto, miope, barbuto?”; di’ la verità, è questo quello che pensi... i giornaletti del tuo partito ti hanno tante volte descritto l’uomo che non sa e non può agire, l’intellettuale, e ti vien fatto di sorridere con compassione, riconoscendomi in quell’immagine... non è cosi? »
Sorpreso da tanto acume, Marcello aveva esclamato : « Come ha fatto a capirlo ? »
« Oh, mio caro figliuolo », aveva risposto Quadri alzandosi in piedi, « mio caro figliuolo, l’ho capito subito... ma non è detta che per agire bisogna avere un’aquila d’oro sul berretto e dei galloni sulle maniche... arrivederci, ad ogni modo, arrivederci, arrivederci e buona fortuna... arrivederci». Cosi dicendo, dolcemente, implacabilmente, aveva spinto Marcello verso la porta.
Adesso Marcello, ripensando a quell’incontro, si rendeva conto che nel suo avventato disprezzo per Quadri gobbo, barbuto e pedante, erano entrate molta impazienza e inesperienza giovanili. Quadri stesso, d’altronde, gli aveva dimostrato coi fatti il suo errore: fuggito, pochi mesi dopo il loro colloquio, a Parigi, vi era diventato ben presto uno dei capi dell’antifascismo, forse il più abile, il più preparato, il più aggressivo. La sua specialità, a quanto sembrava, era l’apostolato. Giovandosi dell’esperienza didattica e della conoscenza della mentalità giovanile, riusciva spesso a convertire giovani indifferenti o anche di sentimenti contrari e poi a spingerli a imprese ardite, pericolose e quasi sempre disastrose se non per lui che ne era l’ispiratore, per loro che ne erano i candidi esecutori. Egli non pareva provare, tuttavia, gettando questi suoi adepti nella lotta cospirativa, alcuna di quelle preoccupazioni umanitarie che, dato il suo carattere, si sarebbe stati tentati di attribuirgli; anzi li sacrificava con disinvoltura in azioni disperate che si potevano giustificare soltanto in piani a lunghissima scadenza e comportanti, appunto, per necessità, una crudele indifferenza per la vita umana. Quadri, insomma, aveva alcune delle rare qualità dei veri uomini politici o per lo meno di una certa categoria di costoro: era astuto e al tempo stesso entusiasta, intellettuale e al tempo stesso attivo, candido e al tempo stesso cinico, riflessivo e al tempo stesso imprudente. Marcello, per obbligo di ufficio, si era spesso occupato di Quadri, dalle relazioni della polizia definito elemento pericolosissimo, ed era sempre rimasto colpito dalla capacità dell’uomo di accozzare insieme tante qualità contrastanti in un solo carattere profondo e ambiguo. Cosi, pian piano, attraverso quanto gli era riuscito di apprendere a distanza e per mezzo di informazioni non sempre precise, aveva cambiato il primo disprezzo in una indispettita considerazione. Ferma, tuttavia, restando l’originaria antipatia; perché era convinto che a Quadri, tra tante qualità, mancasse quella del coraggio, come gli pareva dimostrato dal fatto che, pur spingendo i suoi seguaci in pericoli mortali, mai si esponeva personalmente.
Trasalì tra questi pensieri alla voce di un servitore dell’albergo che, passando rapido per l’atrio, gridava ad alta voce il suo nome. Per un momento quasi pensò che fosse il nome di un altro, aiutato in questa illusione dalla pronunzia francese del servitore. Ma questo « Monsieur Clairici » era purtuttavia lui ; come si rese conto con una specie di nausea quando, fingendo a se stesso di credere davvero che fosse un altro, cercò di immaginare come potesse essere: lui, con il suo viso, la sua persona, i suoi panni. Intanto il servitore si allontanava in direzione della sala di scrittura, sempre chiamandolo. Marcello si alzò e andò direttamente alla cabina del telefono.
Prese il ricevitore posato sopra la mensola e lo portò all’orecchio. Una voce femminile, limpida e un po’ cantante, domandò in francese chi fosse all’apparecchio. Marcello rispose nella stessa lingua : « Sono un italiano... Clerici, Marcello Clerici... e vorrei parlare al professor Quadri ».
« È molto occupato... non so se potrà venire... avete detto che vi chiamate Clerici? »
« Si, Clerici ».
« Aspettate un momento ».
Ci fu il rumore del ricevitore deposto sopra una tavola, poi quello dei passi che si allontanavano e finalmente il silenzio. Marcello aspettò, a lungo, prevedendo che altro rumore di passi avrebbe annunziato il ritorno della donna oppure l’arrivo del professore. Invece, tutto ad un tratto, risuonò la voce di Quadri, scaturendo senza preavvisi da quel profondissimo silenzio: «Pronto, Quadri... chi parla? »
Marcello spiegò in fretta : « Mi chiamo Marcello Clerici... ero un suo studente, di quando lei insegnava a Roma... desidererei vederla ».
« Clerici », ripete Quadri dubbiosamente. E poi, dopo un momento, con decisione : « Clerici : non conosco ».
« Ma si, professore », insistette Marcello, « venni a trovarla pochi giorni prima che lei lasciasse l’insegnamento... volevo sottoporle un progetto di tesi ».
« Un momento, Clerici », disse Quadri, « io non ricordo affatto il suo nome... ma questo non toglie che lei possa aver ragione... e lei vuol vedermi? »
« Si ».
« Perché ? »
«Per nessun motivo», rispose Marcello, «siccome ero suo allievo e poi ho sentito in questi ultimi tempi molto parlare di lei... volevo vederla, ecco tutto ».
« Ebbene », disse Quadri in tono arrendevole, « venga a trovarmi a casa mia ».
« Quando ? »
«Anche oggi... nel pomeriggio... dopo colazione, venga a prendere il caffè... verso le tre».
«Debbo dirle», proferì Marcello, «che sono in viaggio di nozze... potrei portare mia moglie?»
« Ma si capisce... naturalmente... a più tardi».
Il telefono fu abbassato e anche Marcello, dopo un istante di riflessione, rimise a posto il ricevitore. Ma non fece a tempo a uscire dalla cabina perché quello stesso servitore che poco prima aveva chiamato il suo nome per l’atrio, si affacciò dicendogli : « Vi desiderano al telefono».
« Ho già parlato », disse Marcello, facendo per uscire.
« No, vi desidera un’altra persona».
Meccanicamente, rientrò nella cabina, staccò di nuovo il ricevitore. Subito una grossa voce bonaria e festosa gli gridò nell’orecchio : « Siete voi, dottor Clerici ? »
Marcello riconobbe la voce dell’agente Orlando e rispose con voce calma. «Si, sono io ».
« Avete fatto buon viaggio, dottore ? »
« Si, ottimo ».
« La signora sta bene ? »
« Benissimo ».
« E di Parigi che ne dite ? »
« Non sono ancora uscito dall’albergo », rispose Marcello un po’ spazientito da questa familiarità.
« Vedrete... Parigi è Parigi... allora, dottore, vogliamo incontrarci? »
« Certamente Orlando... ditemi voi dove ».
« Voi non conoscete Parigi, dottore... vi do l’appuntamento in un luogo facile a trovarsi... il caffè che fa angolo con piazza della Maddalena... non vi sbagliate, a sinistra venendo da Rue Royale... ha tutti i tavolini fuori... ma io vi aspetto dentro... non ci sarà nessuno dentro ».
«Va bene... a che ora? »
« Ci sono già al caffè... ma aspetto quanto volete... »
« Tra mezz’ora ».
« A meraviglia, dottore... tra mezz’ora ».
 
Alberto Moravia
Il conformista

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