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Il conformista 207
Alberto Moravia - Il conformista PARTE SECONDA |
CAPITOLO SECONDO Appena gli parve che Giulia si fosse addormentata, Marcello si levò dal letto, mise i piedi in terra e incominciò a vestirsi. La camera era immersa in una penombra fresca e trasparente, che lasciava indovinare la bella luce di giugno nel cielo e sul mare: proprio una camera di albergo in Riviera, alta e bianca, decorata di stucchi azzurri in forma di fiori, di steli e di foglie, coi mobili di legno chiaro dello stesso stile floreale degli stucchi, e, in un angolo, una grande palma verde. Come si fu vestito, andò in punta di piedi alle persiane e le scostò guardando di fuori. Subito gli apparve il mare, disteso e sorridente, reso più vasto dalla limpidezza perfetta dell’orizzonte, di un azzurro quasi violetto, che ad una leggera brezza, pareva accendersi, per ogni onda, di un minimo scintillante fiore di luce solare. Marcello abbassò gli occhi dal mare alla passeggiata: era deserta, nessuno sedeva sulle panchine disposte faccia al mare, all’ombra delle palme; nessuno camminava sull’asfalto grigio e pulito. Osservò un lungo momento questa vista, quindi riaccostò le persiane e si voltò a guardare Giulia distesa sul letto. Ella era nuda e dormiva. La posizione del corpo reclinato da una parte, sollevava in alto la rotondità pallida e ampia del fianco, dal quale il torso, come il fusto di una pianta appassita da un vaso, pareva pendere floscio e senza vita. Schiena e fianchi, come Marcello sapeva, erano la sola parte solida e tesa di quel corpo; dall’altro lato, invisibile ma presente alla memoria, c’era la mollezza del ventre traboccante in pieghe tenere sul letto, delle mammelle tirate giù dal peso, l’una sull’altra. La testa, nascosta dalla spalla, non si vedeva; e Marcello, ricordando di aver posseduto la moglie pochi minuti prima, ebbe ad un tratto la sensazione di guardare non ad una persona ma ad una macchina di carne, bella e amabile ma brutale, fatta per l’amore e soltanto per esso. Come destata dai suoi sguardi senza pietà, ella si mosse ad un tratto sospirando profondamente e disse, poi, con voce chiara: « Marcello». Egli si avvicinò sollecito rispondendo con affetto: « Sono qui ». La vide voltarsi, trasferendo pesantemente da una parte all’altra quel suo peso di carne femminile, levare le braccia alla cieca, cingergli i fianchi. Poi, con il viso offuscato dai capelli, in una frizione lenta e tenace del naso e della bocca, cercargli l’inguine. Glielo baciò con una specie di umile e appassionato feticismo, rimase un momento immobile, abbracciata a lui, quindi ricadde sul letto, vinta dal sonno, il viso avvolto nei capelli. Ora ella dormiva di nuovo, nella stessa posizione di prima, soltanto che aveva cambiato lato essendo passata dal fianco destro a quello sinistro. Marcello prese la giubba dall’attaccapanni, andò in punta di piedi alla porta e usci nel corridoio. Discese la larga scala sonora, varcò la soglia dell’albergo e usci sulla passeggiata. Il sole, riverberato dal mare in aguzzi scintillii, lo abbagliò un momento; chiuse gli occhi e allora, come richiamato dall’oscurità, lo colpi alle narici l’odore acuto dell’orma di cavallo. Le carrozze erano là, dietro l’albergo, in una striscia d’ombra, tre o quattro in fila, con i cocchieri addormentati a cassetta e i sedili ricoperti di fodere bianche. Marcello andò alla prima carrozza e sali dicendo ad alta voce l’indirizzo: «Via dei Glicini». Vide il cocchiere lanciargli una breve occhiata significativa e poi, senza dir parola, frustare il cavallo. La carrozza rotolò un buon tratto per il lungomare, poi entrò in una breve strada di ville e di giardini. In fondo alla strada si alzava la collina ligure, bardata di vigne, luminosa, punteggiata di ulivi grigi, con qualche alta casa rossa dalle finestre verdi ritta sul pendio. La strada andava dritta verso il fianco della collina; ad un tratto i marciapiedi e l’asfalto cessarono, cedendo il luogo ad una specie di tracciato erboso. La carrozza si fermò e Marcello levò gli occhi: in fondo ad un giardino si vedeva una casa di tre piani, grigia, con un tetto nero di scaglie di ardesia e le finestre a mansarda. Il cocchiere disse seccamente: « È qui », prese il denaro e voltò in fretta il cavallo. Marcello pensò che fosse offeso di aver dovuto portarlo in quel luogo; ma forse, come rifletté spingendo il cancello, attribuiva all’uomo la ripugnanza che provava lui stesso. Percorse il vialetto, tra due siepi di pitosfori polverosi, dirigendosi verso la porta dai vetri colorati. Aveva sempre odiato queste case e non vi era stato che due o tre volte, negli anni dell’adolescenza, riportandone ogni volta un senso di ribrezzo e di pentimento come di cosa indegna e che non avrebbe dovuto fare. Con cuore nauseato, sali i due o tre gradini, spinse la porta a vetri scatenando una suoneria pettegola ed entrò in un vestibolo pompeiano, davanti una scala dalla balaustrata di legno. Riconobbe il lezzo dolciastro di cipria, di sudore e di seme maschile; la casa era immersa nel silenzio e nel torpore del pomeriggio estivo. Mentre si guardava intorno, sbucata non capi da dove, una specie di cameriera vestita di nero, col grembiale bianco legato alla cintura, piccola, svelta, il viso aguzzo di furetto ravvivato da due occhi brillanti, gli si parò davanti con un « buongiorno » squillante, pronunziato con voce allegra. «Debbo parlare alla padrona», egli disse togliendosi il cappello con forse eccessiva urbanità. « Si, bel toso, gli parlerai », rispose la donna in dialetto, « ma intanto va in sala... la padrona verrà... entra là dentro». Marcello offeso da quel tu e dall’equivoco, si lasciò tuttavia spingere verso una porta socchiusa. Gli apparve, in una rada penombra, la sala comune, lunga e rettangolare, deserta, coi divanetti foderati di stoffa rossa allineati torno torno le pareti. Il pavimento era polveroso come quello di una sala d’aspetto di stazione; anche la stoffa dei divani, lisa e sudicia, confermava lo squallore del luogo pubblico dentro l’intimità e segretezza della casa. Marcello, incerto, sedette su uno di quei divani. Nello stesso momento, simile ad un ventre i cui visceri, dopo una lunga immobilità, si scarichino ad un tratto del loro peso, ci fu in tutta la casa come un disgregamento, un acciottolio, una discesa rovinosa di piedi per la scala di legno. E poi ciò che aveva temuto avvenne. La porta si apri e la voce petulante della cameriera annunziò: «Ecco le signorine... tutte per te ». Entrarono neghittose, svogliate, alcune seminude, altre più vestite, due brune e tre bionde, tre di media statura, una decisamente piccola e una enorme. Quest’ultima venne a sedersi accanto a Marcello, lasciandosi cadere di sfascio sul divano con un sospiro di affaticata soddisfazione. Egli stornò dapprima il viso, quindi, affascinato, si voltò un poco e la guardò. Era proprio enorme, di forma piramidale, coi fianchi più larghi della vita, la vita più larga delle spalle e le spalle più larghe del capo, esiguo questo, con un viso camuso e una treccia nera girata intorno la fronte. Un reggipetto di seta gialla le fasciava le mammelle gonfie e basse; sotto l’ombelico, la gonna rossa si apriva largamente, come un sipario, sullo spettacolo dell’inguine nero e delle massicce cosce bianche. Vedendosi osservata, ella sorrise allusivamente ad una sua compagna seduta contro la parete di fronte, trasse un sospiro, e poi si passò una mano tra le gambe come per allargarle e avere meno caldo. Marcello irritato da questo inerte impudore, avrebbe voluto tirar via la mano che essa andava sfregandosi sotto il ventre; ma non ebbe la forza di muoversi. Ciò che lo colpiva di più in questo bestiame femminile era il carattere irreparabile dello scadimento; lo stesso che lo faceva fremere di orrore davanti alla nudità materna e alla pazzia paterna; e che era all’origine del suo amore quasi isterico per l’ordine, la calma, il nitore, la compostezza. Finalmente la donna disse con voce benevola e scherzosa, volgendosi verso di lui: « Allora non ti piace il tuo harem?... Ti decidi?»; e subito, in un impulso di disgusto frenetico, egli si alzò e usci di corsa dalla sala, salutato, come gli parve, da una risata e da qualche frase oscena in dialetto. Furioso, si diresse verso la scala, pensando di salire al piano superiore e andarvi in cerca della padrona, ma in quel momento, alle sue spalle, si scatenò di nuovo la suoneria della porta e, come si voltò, vide sulla soglia la figura stupita e, ai suoi occhi, in quel frangente, quasi paterna, dell’agente Orlando. «Dottore, buongiorno... ma dove andate, dottore?» esclamò subito l’agente, «non è mica di sopra che dovete andare ». « Veramente », disse Marcello fermandosi e calmandosi ad un tratto, « credo che mi abbiano scambiato per un cliente... » « Donne stupide », disse l’agente scrollando il capo, « venite con me, dottore... vi ci porto io... siete atteso, dottore ». Egli precedette Marcello attraverso la porta a vetri, nel giardino. Percorsero, camminando uno dietro l’altro, il vialetto dei pitosfori, girarono dietro la villa. Il sole bruciava questa parte del giardino, in un ardore asciutto e acre di polvere e di vegetazione inselvatichita. Marcello notò che tutte le persiane della villa erano chiuse, come se fosse disabitata; anche il giardino, pieno di erbacce, pareva abbandonato. L’agente ora si dirigeva verso una bassa costruzione bianca che occupava tutto il fondo del giardino. Marcello ricordò di aver osservato casette come questa, in fondo a giardini e dietro ville simili, nei luoghi balneari: d’estate, affittandosi la villa, i proprietari vi si ritiravano, restringendosi, per amore del guadagno, in un paio di stanze. L’agente, senza bussare, apri la porta e si affacciò annunciando : « Ecco il dottor Clerici ». Marcello si fece avanti, e si trovò in una piccola stanza arredata sommariamente da ufficio. L’aria era densa di fumo; al tavolo, sedeva un uomo, le mani riunite, il viso rivolto verso di lui. L’uomo era albino; il volto aveva una trasparenza lucida e rosata di alabastro, punteggiata di lentiggini gialle; gli occhi erano di un azzurro acceso, quasi rosso, con ciglia bianche, simili a quelli di certe fiere che vivono tra le nevi del polo. Avvezzo al contrasto sconcertante tra il melenso stile burocratico e le mansioni spesso feroci di tanti suoi colleghi del Servizio Segreto, Marcello non potè fare a meno di dirsi che almeno costui era perfettamente al suo posto. C’era più che crudeltà in quel viso spettrale: quasi una specie di furore spietato contenuto però nella rigidezza convenzionale di un atteggiamento militare. Dopo un momento di immobilità imbarazzante, l’uomo si alzò bruscamente rivelando la sua piccola statura : « Gabrio ». Quindi sedette subito e prosegui in tono ironico: «Eccovi, dunque, finalmente, dottor Clerici ». Aveva una voce metallica, sgradevole. Marcello senza aspettare che gli fosse offerto, sedette a sua volta e disse: «Sono arrivato stamani». «E stamani vi aspettavo infatti». Marcello esitò: doveva dirgli che era in viaggio di nozze? Decise di no e fini pacatamente: «Non mi è stato possibile presentarmi prima». « Lo vedo », disse l’uomo. Spinse verso Marcello la scatola delle sigarette con un « fumate ? » senza amenità; quindi prese a leggere a testa bassa su un foglio di carta posato sul tavolo. « Mi lasciano qui, in questa casa forse ospitale ma per nulla segreta, senza informazioni, senza direzioni, senza denaro quasi... ecco qua». Lesse un lungo momento ancora e poi, alzando il viso, soggiunse: «A Roma vi era stato detto di venire a trovarmi, nevvero? » « Si, l’agente che mi ha introdotto qui, venne ad avvertirmi che dovevo interrompere il viaggio e presentarmi da voi ». «Proprio cosi». Gabrio si tolse la sigaretta dalla bocca e la depose con precauzione sull’orlo del portacenere. « All’ultimo momento, a quanto pare, hanno cambiato idea... il programma è mutato». Marcello non batté ciglio; ma venuta non sapeva da dove, senti un’onda di sollievo e di speranza investirlo, gonfiargli l’animo: forse gli sarebbe stato consentito di sdoppiare il viaggio, ridurlo ai suoi motivi apparenti: le nozze, Parigi. Disse, tuttavia, con voce chiara : « E cioè ? » « E cioè, il piano è modificato e di conseguenza, anche la vostra missione », continuò Gabrio. « Il nominato Quadri andava sorvegliato, voi dovevate entrare in rapporti con lui, ispirargli fiducia, farvi dare magari da lui qualche incarico... invece, nell’ultima comunicazione di Roma, il Quadri è designato come persona incomoda, da sopprimere ». Gabrio riprese la sigaretta, ne aspirò una boccata, la riposò sul portacenere. « In sostanza », spiegò in tono più discorsivo, « la vostra missione è ridotta a quasi nulla... vi limiterete a mettervi in contatto col Quadri, valendovi del fatto che già lo conoscete e a indicarlo all’agente Orlando che si reca anche lui a Parigi... potrete, magari, invitarlo in qualche luogo pubblico dove si troverà anche Orlando: un caffè, un ristorante... basterà che Orlando lo veda con voi e si assicuri della sua identità... questo è quanto vi si richiede... poi potrete dedicarvi al vostro viaggio di nozze come meglio vi aggrada ». Dunque Gabrio sapeva anche lui del viaggio di nozze, pensò Marcello stupito. Ma questo primo pensiero, come si accorse subito, non era che una maschera affrettata con la quale il suo animo cercava di nascondere a se stesso il proprio turbamento. In realtà Gabrio gli aveva rivelato qualche cosa di più importante della conoscenza del viaggio di nozze: la decisione di sopprimere Quadri. Con sforzo violento, si costrinse ad esaminare obbiettivamente questa straordinaria e funesta novità. E subito fece una constatazione fondamentale : per sopprimere Quadri, la sua presenza e il suo concorso a Parigi non erano affatto necessari; l’agente Orlando poteva benissimo trovare e identificare da solo la sua vittima. In realtà, come pensò, si voleva legarlo ad una complicità effettiva, seppure non necessaria, comprometterlo a fondo e una volta per sempre. Quanto poi al cambiamento di piano, non c’era dubbio che esso fosse soltanto apparente. Certamente, al momento della sua visita al ministero, il piano or ora esposto da Gabrio era già stato deciso e definito in tutti i particolari; e l’apparente cambiamento era dovuto alla cura caratteristica di dividere e confondere le responsabilità. Né lui né probabilmente Gabrio avevano ricevuto ordini scritti; in tal modo, in caso di sviluppi sfavorevoli, il ministero avrebbe potuto proclamare la propria innocenza; e la colpa dell’assassinio sarebbe ricaduta su lui, su Gabrio, su Orlando, e sugli altri esecutori materiali. Egli esitò e poi, per guadagnar tempo, obbiettò: « Mi sembra che Orlando non abbia bisogno di me per trovare Quadri... credo che sia persino nel libro dei telefoni». « Questi sono gli ordini », disse Gabrio con prontezza quasi precipitosa, come se avesse preveduto la obbiezione. Marcello abbassò il capo. Si rendeva conto di essere stato attirato in una specie di tranello; e che avendo offerto un dito, adesso, con un sotterfugio, gli si prendeva un braccio; ma, stranamente, passata la prima sorpresa, si accorgeva di non provare alcuna vera ripugnanza per il cambiamento di piano; bensì soltanto un senso di rassegnazione testarda e malinconica, come di fronte ad un dovere che per diventare più ingrato, restava tuttavia inalterato e inevitabile. L’agente Orlando, probabilmente, non era consapevole del meccanismo interno di questo dovere, lui si, ma a questo si limitava tutta la differenza. Né lui né Orlando potevano sottrarsi a quelli che Gabrio chiamava gli ordini e che erano in realtà condizioni personali ormai consolidate, fuori delle quali, per ambedue, non c’erano che disordine e arbitrio. Disse, finalmente, rialzando il capo : « E va bene... e dove troverò Orlando, a Parigi ? » Gabrio rispose gettando uno sguardo al solito foglio di carta, sul tavolo : « Dite voi il vostro recapito... Orlando vi cercherà ». Cosi, non potè fare a meno di pensare Marcello, non si fidavano del tutto di lui e, comunque, non stimavano opportuno rivelargli il recapito dell’agente a Parigi. Egli disse il nome dell’albergo in cui sarebbe disceso e Gabrio l’appuntò in calce al foglio. Egli soggiunse in tono piu affabile, quasi a indicare che la parte ufficiale della visita era finita : « Siete mai stato a Parigi? » « No, è la prima volta ». « Io ci sono stato due anni prima di finire in questo buco », disse Gabrio con una sua amarezza burocratica, « una volta che si è stati a Parigi anche Roma sembra una borgata... figuratevi un luogo come questo ». Accese una sigaretta con il mozzicone e soggiunse con arida vanteria: «A Parigi stavo sul velluto... appartamento, automobile, amicizie, relazioni femminili... sapete, sotto quest’ultimo aspetto, Parigi è ideale». Marcello, sebbene con ripugnanza, credette di dover secondare in qualche modo l’affabilità di Gabrio e disse : « Eppure, con questa casa, qui accanto, non ci si deve annoiare». Gabrio scosse la testa : « Peuh, cosa volete divertirvi con quella carnaccia da coscritti a un tanto al chilo... no », soggiunse, « la sola risorsa qui è il casinò... voi giocate? » « No, mai ». «Eppure è interessante», disse Gabrio tirandosi indietro sulla seggiola, come per significare che il colloquio era finito. «La fortuna può sorridere a chiunque, a me come a voi... non per nulla è femmina... tutto sta ad acciuffarla a tempo ». Egli si alzò, andò alla porta e la spalancò. Era veramente piccolo, come osservò Marcello, con le gambe corte e il busto rigido chiuso in una giacca verde di colore e di taglio militare. Gabrio stette un momento fermo, guardando Marcello, in un raggio di sole che sembrava accentuare la trasparenza della sua pelle lucida e rosea, quindi disse : « Suppongo che non ci vedremo più... voi, dopo Parigi, tornate direttamente a Roma». « Si, quasi certamente ». « Avete bisogno di nulla ? » domandò ad un tratto Gabrio a malincuore. « Vi hanno fornito di fondi?... Non ho molto qui con me... ma se avete bisogno di qualche cosa... » «No, grazie, non ho bisogno di nulla». «Allora buona fortuna e in bocca al lupo». Si strinsero la mano e Gabrio, in fretta, chiuse l’uscio della casetta. Marcello si avviò verso il cancello. Ma come fu nel viale dei pitosfori, si accorse che nella furia della fuga dalla sala comune, vi aveva dimenticato il cappello. Esitò, gli ripugnava rientrare in quello stanzone che puzzava di scarpe, di cipria e di sudore e temeva d’altra parte i frizzi e le lusinghe delle donne. Poi si decise, tornò indietro e spinse la porta scatenando la solita suoneria. Questa volta nessuno apparve, né la cameriera dal viso di furetto né alcuna delle ragazze. Ma udì giungere dalla sala comune, attraverso la porta aperta, la voce ben nota, grossa e bonaria, dell’agente Orlando; e, incoraggiato, si affacciò sulla soglia. La sala era vuota; l’agente sedeva nell’angolo della porta accanto ad una donna che Marcello non ricordò di aver notato tra quelle che si erano presentate al suo primo ingresso. L’agente le girava, con un goffo gesto confidenziale, un braccio intorno la vita, e non si curò di ricomporsi all’apparire di Marcello. Impacciato, vagamente irritato, egli stornò gli occhi da Orlando e li rivolse alla donna. Ella sedeva rigidamente, quasi avesse voluto in qualche modo respingere o almeno allontanare il compagno. Era bruna, con la fronte alta e bianca, gli occhi chiari, il viso lungo e magro, la bocca grande, ravvivata da uno scuro rossetto e di espressione forse sdegnosa. Era vestita in maniera quasi normale: un abito da sera scollato, sbracciato, bianco. Solo lenocinio, la spaccatura della gonna che si apriva poco sotto la vita, scoprendo il ventre e le gambe accavallate, lunghe, asciutte ed eleganti, di una bellezza casta di danzatrice. Stringeva la sigaretta accesa tra due dita, ma non fumava: la mano era posata sul bracciuolo del divano, il fumo saliva nell’aria. L’altra mano, la teneva abbandonata sul ginocchio dell’agente come, pensò Marcello, sulla testa fedele di un grosso cane. Ma ciò che lo colpi di più fu la fronte, non tanto bianca quanto illuminata in maniera misteriosa dall’espressione intensa degli occhi: una purezza di luce che gli fece pensare ad uno di quei diademi di brillanti di cui, un tempo, le donne si incoronavano ai balli di gala. Lo sguardo di Marcello si prolungava, attonito; e pur guardando, egli si accorgeva di provare non sapeva che doloroso senso di rammarico e di dispetto. Intanto, intimidito da quello sguardo insistente, Orlando si era alzato. « Il mio cappello », disse Marcello. La donna era rimasta seduta e lo guardava, adesso, a sua volta, senza curiosità. L’agente, sollecito, andò attraverso la sala a prendere il cappello su un divano distante. Allora, improvvisamente, Marcello capì perché la vista della donna gli aveva ispirato quel doloroso sentimento di rammarico: in realtà, come si accorse, egli non voleva che ella facesse il piacere dell’agente e vederla subirne l’abbraccio l’aveva fatto soffrire come di fronte ad una profanazione intollerabile. Certamente ella non sapeva nulla della luce che le raggiava sulla fronte e che non le apparteneva come non appartiene, in genere, la bellezza a chi è bello. Tuttavia gli pareva quasi suo dovere impedirle di inchinare quella fronte luminosa a soddisfare i capricci erotici di Orlando. Per un momento, pensò di valersi della propria autorità, per portarla via dalla sala: avrebbero chiacchierato un poco e poi, appena fosse stato sicuro che l’agente si era scelta un’altra donna, se ne sarebbe andato. Pensò pure, pazzamente, di toglierla dalla casa di tolleranza e avviarla ad un altro genere di vita. Ma pur pensando queste cose, si rendeva conto che erano fantasie: ella non poteva non essere simile alle sue compagne, come loro irreparabilmente e quasi innocentemente guasta e perduta. Poi si senti toccare il braccio: Orlando gli porgeva il cappello. Macchinalmente lo prese. Ma l’agente aveva avuto il tempo di riflettere su quel singolare sguardo di Marcello. Egli fece un passo avanti e indicando la donna, un po’ come si indicherebbe un cibo o una bevanda a un ospite di riguardo, propose: «Dottore se lei vuole, se questa le piace... io posso anche aspettare». Dapprima Marcello non capi. Poi vide il sorriso di Orlando, insieme rispettoso e malizioso e senti di arrossire fino alle orecchie. Cosi Orlando non rinunziava, si adattava soltanto, per cortesia di compagno e disciplina di inferiore, a farlo passare avanti: proprio come al banco di un bar o alla tavola di un buffet. Marcello disse in fretta : « Ma lei è matto Orlando... faccia quello che crede, io debbo andar via ». « In tal caso, dottore », disse l’agente con un sorriso. Marcello lo vide fare un cenno di richiamo alla donna, e poi, con dolore, vide la donna, a quel cenno, subito alzarsi, ubbidiente, e, alta e dritta, col suo diadema di luce sulla fronte, senza esitare né protestare, con semplicità professionale, venire incontro all’agente. Questi disse a Marcello : « Dottore, noi ci vediamo presto » e si fece da parte per lasciar passare la donna. Anche Marcello, quasi suo malgrado, si tirò indietro; e lei si avviò tra i due, senza fretta, la sigaretta tra le dita. Ma come fu davanti a Marcello si fermò un istante e disse : « Se mi temuto, era grossa e rauca, priva di gentilezza; a vuoi, mi chiamo Luisa». La voce, come egli aveva queste parole Luisa credette di dovere aggiungere un gesto di lusinga, tirando fuori la lingua e leccandosi il labbro superiore. Parve a Marcello che parole e gesto lo sollevassero in parte dal rimorso di non averle impedito di andarsene con Orlando. Intanto la donna, sempre precedendo l’agente, era giunta alla scala. Ella gettò in terra la sigaretta accesa, la schiacciò col piede, sollevò con le due mani la gonna e prese a salire in fretta, seguita, uno scalino più in basso, da Orlando. Finalmente scomparvero dietro l’angolo del pianerottolo. Qualcuno adesso, probabilmente una delle ragazze e il suo cliente, discendevano la scala chiacchierando. Marcello uscì in fretta dalla casa. |
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L’utile e il dilettevole / 2