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Il conformista 185
Alberto Moravia - Il conformista PARTE SECONDA |
CAPITOLO PRIMO Appena il treno ebbe incominciato a muoversi, Marcello lasciò il finestrino al quale si era affacciato per discorrere o meglio per ascoltare i discorsi della suocera e rientrò nello scompartimento. Giulia, invece, restò al finestrino: dallo scompartimento Marcello poteva vederla nel corridoio, mentre si sporgeva sventolando un fazzoletto; con un impeto ansioso che rendeva patetico quel gesto altrimenti cosi comune. Senza dubbio, come pensò, ella sarebbe rimasta ad agitare il fazzoletto finché le fosse sembrato di intravedere sulla banchina la figura di sua madre; e cessare di intravederla, per lei, sarebbe stato il segno più chiaro del distacco definitivo dalla sua vita di ragazza; distacco insieme temuto e desiderato che con la partenza, in treno, mentre la madre restava a terra, acquistava un carattere dolorosamente concreto. Marcello guardò ancora un momento la moglie che si sporgeva al finestrino, vestita di un abito chiaro che il gesto del braccio faceva tutto raggrinzare sulle forme rilevate, e poi si lasciò cadere indietro sui cuscini, chiudendo gli occhi. Quando, dopo qualche minuto, li riapri, la moglie non era più nel corridoio e il treno correva già in aperta campagna: una pianura arida, senza alberi, già avvolta nella penombra del crepuscolo, sotto un cielo verde. 185 Ogni tanto il terreno si sollevava in colline pelate e tra le colline apparivano valloni che si stupiva di vedere deserti di abitazioni e di figure umane. Qualche rudere di mattoni, in cima alle colline, confermava questa sensazione di solitudine. Era un paesaggio riposante, come pensò Marcello, che invitava alla riflessione e alla fantasticheria. Intanto in fondo alla pianura, all’orizzonte, si era levata la luna, rotonda, di un rosso sanguigno, con una fulgida stella bianca alla sua destra. La moglie era scomparsa e Marcello desiderò che per qualche minuto non tornasse: voleva riflettere e, per l’ultima volta, sentirsi solo. Adesso riandava con la memoria alle cose che aveva fatto negli ultimi giorni e si accorgeva, rievocandole, di provare un convinto e fondo compiacimento. Questa, pensò, era la sola maniera di cambiare la propria vita e se stesso: agire, muoversi nel tempo e nello spazio. Al solito gli piacevano soprattutto le cose che ribadivano i suoi legami ad un mondo normale, comune, previsto. La mattina del matrimonio: Giulia, in vestito da sposa, che correva lietamente da una stanza all’altra, in un fruscio di seta; lui che entrava nell’ascensore con un mazzolino di mughetti nella mano guantata; la suocera che appena egli entrava si gettava tra le sue braccia singhiozzando; Giulia che l’attirava dietro lo sportello di un armadio, per baciarlo a suo agio; l’arrivo dei testimoni, due amici di Giulia, un medico e un avvocato, e due amici suoi, del ministero; la partenza per la chiesa, dalla casa, con la gente che guardava dalle finestre e dai marciapiedi, in tre macchine: nella prima lui e Giulia; nella seconda i testimoni; nella terza la suocera e due sue amiche. Durante il tragitto, era avvenuto un incidente singolare: ad un semaforo, l’automobile si 186 era fermata e, improvvisamente, qualcuno si era affacciato al finestrino: un viso rosso, barbuto, con la fronte calva c il naso prominente. Un mendicante; ma, invece di domandare l’elemosina, aveva chiesto, con voce roca : « Mi date un confetto, sposi ? » e nello stesso tempo aveva allungato la mano dentro la macchina. L’apparizione subitanea del viso allo sportello, quella mano indiscreta protesa verso Giulia, avevano irritato Marcello che, con severità forse eccessiva, aveva risposto: «Via, via, niente confetti ». Al che, l’uomo, probabilmente ubriaco, aveva gridato con quanta voce aveva : « Che tu sia maledetto », ed era scomparso. Giulia, sgomenta, si era stretta a lui, mormorando: «Ci porterà malaugurio»; e lui con una scrollata di spalle, aveva risposto : « Sciocchezze.*. un ubriaco ». Quindi la macchina si era mossa e l’incidente gli era uscito quasi subito di mente. Nella chiesa tutto era stato normale, ossia tranquillamente solenne, rituale, cerimonioso. Una piccola folla di parenti e di amici si era distribuita sui primi banchi davanti l’altare maggiore, gli uomini vestiti di scuro, le donne in chiari abiti primaverili. La chiesa, molto ricca ed ornata, era dedicata ad un santo della Controriforma. Dietro l’altare maggiore, sotto un baldacchino di bronzo dorato c’era, appunto, una statua di questo santo, di marmo grigio, piu grande del naturale, atteggiata con gli occhi rivolti al cielo e le palme aperte. Dietro la statua, l’abside appariva tutta affrescata alla maniera barocca, svolazzante e vivace. Giulia e lui si erano inginocchiati davanti alla balaustra di marmo, sopra un cuscino di velluto rosso. 1 testimoni si erano disposti dietro di loro, due a due, in piedi. La funzione era stata lunga, la famiglia di Giulia aveva tenuto a darle la 187 massima solennità. Fin dall’inizio della funzione, lassù, nel balcone che sovrastava il portale di ingresso, un organo aveva preso a suonare e poi non non aveva più smesso, ora Tonfando in sordina, ora propagandosi trionfalmente in note clamorose sotto le volte echeggiantì. Il prete era stato molto lento: cosi che Marcello, dopo avere osservato con compiacimento tutti i particolari della cerimonia che era appunto quale l’aveva immaginata e voluta, dopo essersi convinto che stava facendo quanto avevano fatto milioni di sposi per centinaia d’anni prima di lui, si era distratto ad osservare la chiesa. Non era una bella chiesa, ma era molto vasta, concepita e costruita con intenti di solennità teatrale come tutte le chiese dei gesuiti. L’enorme statua del santo, inginocchiato sotto il baldacchino in attitudine estatica, sovrastava un altare dipinto a finto marmo, tritamente affollato di candelabri d’argento, di vasi pieni di fiori, di statuette decorative, di lumi di bronzo. Dietro il baldacchino, si incurvava l’abside affrescata da un pittore dell’epoca: nuvole vaporose quali avrebbero potuto figurare sul sipario di un teatro di opera si gonfiavano in un cielo azzurro che striavano le spade di luce di un sole nascosto; sopra le nuvole sedevano varii personaggi sacri, dipinti alla brava, con più senso decorativo che spirito religioso. Spiccava tra gli altri e come sovrastandoli tutti, la figura del Padre Eterno; e, tutto ad un tratto, Marcello, in quella testa barbuta ornata del triangolo, non aveva potuto fare a meno di ravvisare il mendicante che, poco prima, si era affacciato allo sportello della macchina chiedendo dd confetti e poi l’aveva maledetto. In quel momento, l’organo suonava forte, con una severità quasi minacciosa che non pareva lasciare adito ad alcuna dolcezza e allora, quella somiglianza, che 188 in altre circostanze l’avrebbe fatto sorridere (il Padre Eterno travestito da mendicante che si affaccia al finestrino di un taxi chiedendo dei confetti), gli aveva richiamato alla mente, non sapeva neppur lui perché, i versetti biblici riguardanti Caino, che qualche anno dopo il fatto di Lino, aprendo un giorno la Bibbia, gli erano capitati per caso sotto gli occhi: « Che hai tu fatto ? La voce del sangue del tuo fratello grida a me dalla terra. Sarai perciò d’ora in poi maledetto sulla terra che ha aperto la bocca per ricevere il sangue del tuo fratello, versato dalla tua mano. Anche se lavorerai non ti darà frutti; sarai ramingo e fuggiasco per il mondo. Disse Caino al Signore: È troppo grande la mia iniquità perché meriti perdono. Ecco, tu mi scacci oggi sulla terra: sfuggirò la tua faccia e sarò ramingo e fuggiasco per il mondo. Perciò chiunque mi troverà mi ucciderà. Ma il Signore gli disse: No, non sarà cosi. Anzi, chiunque ucciderà Caino, sarà punito sette volte di piu. E pose il Signore su Caino un segno, acciò nessuno che rincontrasse, lo uccidesse ». Questi versetti, quel giorno, gli erano sembrati addirittura scritti per lui, maledetto per il suo involontario delitto ma al tempo stesso reso sacro e intangibile proprio da quella maledizione. Poi, dopo averli più volte riletti e meditati, si era stancato, come avviene, di pensarci e li aveva dimenticati. Ma quella mattina, in chiesa, osservando la figura dell’affresco gli erano tornati in mente, e, una volta di più, gli erano sembrati adatti a definire il suo caso. Freddamente, ma non senza una cupa convinzione di affondare lo strumento del pensiero in un terreno fertile di analogie e di significati, mentre la funzione continuava, egli aveva speculato su questo punto: se maledizione c’era davvero, perché era stata scagliata? Gli era tornata in 189 mente, a questa domanda, la continua tenace malinconia che l’opprimeva, come di chi si perda e sappia che non può fare a meno di perdersi e si era detto che con Tistinto, almeno, se non con la coscienza, egli sapeva di essere maledetto. Ma non perché aveva ucciso Lino, bensì perché aveva cercato e tuttora cercava di liberarsi dal fardello di pentimento, di corruzione e di anormalità di quel lontano misfatto fuori della religione e delle sue sedi. Ma che poteva farci, aveva ancora pensato, cosi egli era e non poteva cambiarsi. Non c’era, insomma, in lui alcuna cattiva volontà ma soltanto l’accettazione onesta della condizione in cui era nato, del mondo in cui si trovava a vivere. Una condizione lontana dalla religione, un mondo che sembrava aver sostituito la religione con altre cose. Avrebbe certo preferito affidare la propria vita alle antiche ed affettuose persone della religione cristiana, al Signore cosi giusto, alla Vergine cosi materna, al Cristo cosi misericordioso; ma nel momento stesso che provava questo desiderio, si rendeva conto che quella vita non gli apparteneva e però non poteva affidarla a chi volesse; che era fuori della religione e non poteva tornarci, sia pure per purificarsi e diventare normale. La normalità, come aveva pensato, era, ormai, altrove o, forse, era ancora da venire e andava ricostruita faticosamente, dubbiosamente, sanguinosamente. Quasi a conferma di questi pensieri, in quel momento aveva guardato, li al suo fianco, a colei che tra pochi minuti sarebbe stata sua moglie. Giulia stava inginocchiata, le mani giunte, il viso e gli occhi rivolti all’altare, quasi, come sembrava, rapita in una sua estasi lieta e piena di speranza. E tuttavia, al suo sguardo, come se l’avesse avvertito sulla propria persona simile al contatto di una mano, si era 190 subito voltata e gli aveva sorriso con gli occhi e con la bocca: un sorriso tenero, umile, grato, di una innocenza quasi animalesca. Egli aveva ricambiato il sorriso, seppure meno apertamente e poi, come scaturito da quel sorriso, aveva avuto, forse per la prima volta da quando la conosceva, un empito se non proprio d’amore per lo meno di profondo affetto tutto misto di compassione e di tenerezza. Quindi, per un momento, stranamente, gli era sembrato di svestirla con lo sguardo, di far scomparire dalla sua persona gli abiti nuziali, i panni più intimi e di vederla, popputa, ventruta, florida, sana e giovane inginocchiata tutta ignuda su quel cuscino di velluto rosso, al suo fianco, in atto di giungere le mani. E anche lui era nudo come lei; e, fuori di ogni consacrazione rituale, essi stavano per unirsi davvero, come si uniscono gli animali nei boschi; e questa unione, che egli credesse o non credesse nel rito cui stava partecipando, ci sarebbe stata davvero, e da essa, come desiderava, sarebbero nati dei figli. Gli era sembrato a questa riflessione, per la prima volta, di mettere i piedi su un terreno sicuro e aveva pensato : « Questa tra poco sarà mia moglie... e io la possederò... e lei, una volta posseduta, concepirà dei figli... e questo, per adesso, in mancanza di meglio, sarà il punto di partenza della normalità». Ma in quel momento aveva visto Giulia muovere le labbra in atto di preghiera e a quel moto fervido della bocca gli era sembrato che la nudità di lei si fosse rivestita ad un tratto, come d’incanto, degli abiti nuziali, e aveva capito che Giulia, lei, credeva, invece, fermamente alla consacrazione rituale della loro unione; e non era stato scontento di questa scoperta; anzi ne aveva tratto quasi un senso di sollievo. Per Giulia, la normalità non era, come per lui, da tro- vare né da ricostruire; c’era; e lei vi stava immersa e, qualsiasi cosa fosse avvenuta, non ne sarebbe mai uscita. Cosi la cerimonia si era conclusa con sufficiente commozione e affetto da parte sua; una commozione e un affetto di cui a tutta prima si era creduto incapace e che aveva sentito ispirata da motivi profondi e suoi e non dalla suggestione del luogo e del rito. Tutto, insomma, si era svolto secondo le regole tradizionali, in modo da soddisfare non soltanto coloro che credevano a queste regole ma anche lui che non ci credeva ma voleva agire come se ci credesse. Uscendo al braccio della moglie, nel momento che si soffermava sotto il portale, davanti la scalinata della chiesa, aveva udito la madre di Giulia, dietro di lui, dire ad una amica: «È tanto, tanto buono... hai visto come era commosso... l’ama tanto... Giulia non poteva davvero trovare un marito migliore». Ed era stato contento di aver saputo ispirare una simile illusione. Adesso, a conclusione di queste riflessioni, provava quasi un’impazienza acre e zelante di riprendere la sua parte di marito al punto in cui, dopo la cerimonia nuziale, l’aveva lasciata. Stornò gli occhi dal finestrino che, nel frattempo, essendo sopravvenuta la notte, si era riempito di una oscurità nera e debolmente scintillante e guardò al corridoio cercando Giulia. Si accorse di provare quasi un’irritazione per la sua assenza e questo gli fece piacere perché gli parve un indizio della naturalezza con la quale, ormai, recitava la sua parte. Si domandò a questo punto se avesse dovuto prendere Giulia nella scomoda cuccetta del vagone letto, oppure aspettare di giungere a S. dove si sarebbe conclusa la prima tappa del loro viaggio, e si accorse a questo pensiero di pro192 vare un subitaneo, forte desiderio e decise che l’avrebbe presa in treno. Cosi doveva avvenire in simili casi, pensò, e d’altronde cosi si sentiva inclinato ad agire, sia per appetito carnale sia per compiaciuta fedeltà alla sua parte di sposo. Ma Giulia era vergine, come egli sapeva di certo, e non sarebbe stato facile possederla. Si accorse che quasi gli avrebbe fatto piacere se, dopo avere tentato invano di infrangere quella verginità, gli fosse toccato aspettare l’albergo a S. e la comodità di un letto matrimoniale. Succedevano di queste cose agli sposi novelli, persino ridicole a forza di normalità, e lui voleva rassomigliare al piu normale tra i normali, anche a costo di passare per impotente. Stava già per affacciarsi al corridoio, quando la porta si apri e Giulia entrò. Indossava la sola gonna con la camicetta, si era tolta la giubba che portava sul braccio. Il petto fiorente spingeva con esuberanza il lino bianco della camicetta trasfondendovi un tenue color rosato di nudità; nel viso era la luce di ima lieta soddisfazione; soltanto gli occhi, più grandi sfatti e languidi del solito, parevano rivelare una trepidazione vogliosa, un turbamento quasi impaurito. Marcello notò tutte queste cose con compiacimento: Giulia era veramente la sposa che si apprestava a darsi per la prima volta. Ella si girò un po’ goffamente (si muoveva sempre goffamente, pensò, ma .era amabile goffaggine, di animale sano e innocente) per chiudere la porta e tirare la tendina, quindi, ritta davanti a lui, cercò di appendere la giubba ad un uncino del portabagagli. Ma il treno correva a grande velocità; ad uno scambio imboccato impetuosamente tutta la vettura parve sbandare e Giulia gli cadde addosso. Non senza malizia, ella rimediò alla caduta, sedendogli sulle ginocchia e circondandogli il collo 193 ij * / / conformista. con le braccia. Marcello senti sulle proprie magre gambe tutto il peso del corpo di lei e macchinalmente le cinse la vita. Ella gli disse piano: « Mi ami? » e nello stesso tempo chinò il viso cercando con la bocca la bocca di lui. Si baciarono a lungo mentre il treno continuava a correre con quella sua velocità complice, si sarebbe detto, del bacio, per cui ad ogni scossa i loro denti si urtavano e il naso di Giulia pareva voler entrare nel viso di lui. Finalmente si separarono e Giulia coscienziosa, senza scendere dalle sue ginocchia, prese dalla borsa il fazzoletto e gli pulì le labbra dicendo : «Hai almeno un chilo di rossetto sulle labbra». Marcello, indolenzito, approfittò di una nuova scossa del treno, per far scivolare quel corpo pesante sul sedile. Ella disse: «Cattivo, non mi vuoi?» « Debbono ancora venire a preparare le cuccette », disse Marcello un po’ imbarazzato. « Pensa », ella continuò senza transizione, guardandosi intorno, « è la prima volta che viaggio in vagone letto ». Marcello non potè fare a meno di sorridere per l’ingenuità del tono e domandò: «Ti piace? » «Si mi piace molto», ella si guardò intorno di nuovo. « Quando vengono a preparare i letti ? » « Presto ». Tacquero; poi Marcello guardò la moglie e si accorse che anche lei lo guardava ma con espressione cambiata, quasi con timidezza e apprensione, restando, tuttavia, nel viso l’espressione accesa e felice di pochi minuti prima. Ella si vide guardata e gli sorrise, come per scusarsi e, senza aprir bocca, andò con la mano a stringergli la mano. Poi, dai suoi occhi teneri e liquidi, due lagrime scivolarono sulle guance, seguite da altre due. Giulia piangeva pur continuan194 do a guardarlo, c tentando, pietosamente, di sorridergli tra le lagrime. Finalmente, con impeto subitaneo, chinò il capo e prese a baciargli in furia la mano. Marcello rimase disorientato da questo pianto: Giulia era di carattere allegro e poco sentimentale, era la prima volta che la vedeva piangere. Giulia, però, non gli lasciò il tempo di formulare alcuna supposizione, perché, risollevandosi, disse in fretta: « Scusami se piango... ma ho pensato che sei tanto migliore di me e che io sono indegna di te ». « Ora d metri a parlare come tua madre », disse Marcello sorridendo. La vide soffiarsi il naso e poi rispondere con calma : « No, la mamma queste cose le dice senza sapere perché... io invece ci ho la ragione ». « Quale ? » Ella lo guardò un lungo momento c poi spiegò: « Debbo dirti una cosa dopo la quale forse non mi amerai piu... ma debbo dirtela ». « Che cosa ? » Ella rispose lentamente, guardandolo con attenzione, come se avesse voluto sorprendere al suo primo apparire l’espressione di disprezzo che temeva: « Io non sono come tu mi credi ». « E cioè ? » «Non sono... insomma, non sono vergine». Marcello la guardò e capi improvvisamente che quel carattere normale che aveva sinora attribuito alla moglie, in realtà non esisteva. Non sapeva cosa si nascondesse sotto quell'inizio di confessione, ma sapeva ormai di certo che Giulia non era, secondo le sue parole, quale l’aveva creduta. Gli venne un senso di anticipata sazietà all’idea di quello che stava per udire e quasi un desiderio di rifiutare la confidenza. Ma doveva prima di tutto rassicurarla; e questo gli 195 era facile, perché, quella famosa verginità, che ci fosse o non ci fosse, in realtà non gli importava nulla. Rispose in tono affettuoso: « Non preoccuparti... ti ho sposata perché ti volevo bene... e non perché eri vergine ». Giulia disse scuotendo il capo : « Lo sapevo che avevi una mentalità moderna... e che non ci avresti dato peso... ma dovevo dirtelo lo stesso ». « Mentalità moderna », non potè fare a meno di pensare Marcello quasi divertito. La frase rassomigliava a Giulia e compensava la mancata verginità. Era una frase innocente seppure di un’innocenza diversa da quella che egli aveva supposto. Disse, prendendole una mano : « Suvvia, non pensiamoci più » ; e le sorrise. Giulia gli rese il sorriso. Ma di nuovo, mentre gli sorrideva, le lagrime le riempirono gli occhi, e le sgorgarono sulle guance. Marcello protestò : « Su, su... che ti prende ora... se ti ho detto che non m’importa ? » Giulia ebbe un gesto singolare. Gli circondò il collo con le braccia ma stornò il viso contro il suo petto, piegandolo in basso in modo che Marcello non potesse vederlo. « Debbo dirti tutto». « Tutto che còsa? » «Tutto quello che mi è successo». « Ma non importa ». « Ti prego... sarà una debolezza... ma se non te lo dico, mi pare che ti nasconderei qualche cosa». « Ma perché? » disse Marcello accarezzandole i capelli. « Avrai avuto un amante... qualcuno a cui ti sembrava di voler bene... o al quale volevi bene veramente... perché dovrei saperlo? » «No, non gli volevo bene», ella rispose subito quasi con dispetto, «e non ho mai creduto di volergli bene... siamo stati amanti si può dire fino al gior196 no che mi sono fidanzata con te... ma non era un giovane come te... era un vecchio di sessant’anni : disgustoso, duro, cattivo, esigente... un amico di famiglia, tu lo conosci ». « Chi è ? » « L’avvocato Fenizio », ella disse brevemente. Marcello sussultò: «Ma era uno dei testimoni... ». « Già, l’ha voluto per forza... io non avrei voluto, ma non potevo rifiutare... è già molto che mi abbia permesso di sposarmi... » |
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L’utile e il dilettevole / 2