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Il conformista 151


Alberto Moravia - Il conformista
PARTE PRIMA / CAPITOLO QUARTO (cont.)
Il pazzo fece di nuovo quel cenno con la mano ossuta agitata in alto; quindi, con una sua strana furia, lanciò, per aria, al disopra della testa chinata, un foglio di carta che andò a cadere nel mezzo della sala. Marcello si chinò a raccoglierlo: non conteneva che poche parole incomprensibili scritte in una calligrafia piena di svolazzi e di sottolineature. Forse non erano neanche parole. Mentre esaminava il foglio, il pazzo cominciò a lanciarne degli altri, sempre con lo stesso gesto furiosamente indaffarato. I fogli volavano al di sopra della testa canuta e si sparpagliavano per la stanza. Via via che lanciava i fogli, i gesti del pazzo si facevano sempre più violenti e tutta la stanza adesso era piena di quei foglietti di carta quadrigliata. La madre disse : « Povero caro... ha sempre avuto la passione di scrivere».
Il professore si chinò un poco verso il pazzo: « Maggiore, ci sono vostra moglie e vostro figlio... non volete vederli ? »
Questa volta il pazzo parlò, finalmente, con una voce bassa, borbottante, frettolosa, ostile, proprio come chi venga disturbato in un’occupazione importante: «Che ripassino domani... a meno che non abbiano delle proposte concrete da fare... non lo vedete che ho l’anticamera piena di gente che non faccio a tempo a ricevere ? »
« Crede di essere un ministro », sussurrò la madre a Marcello.
« Ministro degli esteri », confermò il professore.
« L’affare di Ungheria», disse ad un tratto il pazzo sempre scrivendo, con una voce veloce, sommessa, affannosa, « Tartare di Ungheria... quel capo di governo che sta a Praga... a Londra che fanno? E i francesi perché non capiscono? Ma perché non capiscono? Perché? Perché? Perché?» Ogni «perché» fu pronunziato dal pazzo con voce gradatamente più alta; finché, all’ultimo « perché » proferito quasi urlando, il pazzo balzò dalla seggiola e si voltò, facendo fronte ai visitatori. Marcello levò gli occhi e lo guardò. Sotto i capelli bianchi e ritti, il viso magro, sciupato, bruno, profondamente segnato di rughe verticali, appariva improntato ad un’espressione di gravità compunta, solenne, quasi angosciata dallo sforzo di adeguarsi ad un immaginaria occasione retorica e cerimoniosa. Il pazzo teneva al livello degli occhi uno di quei suoi foglietti; e senza più, con una strana e trafelata precipitazione, incominciò a leggerlo: «Duce, capo degli eroi, re della terra del mare e del cielo, principe, papa, imperatore, comandante e soldato », qui il pazzo fece un gesto di impazienza temperata però da alquanta cerimoniosità, come per significare « eccetera, eccetera » ; «duce, in questo luogo che», il pazzo fece un nuovo gesto come per dire : « salto, sono cose superflue», quindi riprese: «in questo luogo io ho scritto un memoriale che ti prego di leggere dalla prima », il pazzo si fermò e guardò i visitatori, « all’ultima riga. Ecco il memoriale ». Dopo quest’esordio, il pazzo gettò all’aria il foglio, si voltò verso la scrivania, ne prese un altro e cominciò a leggere il memoriale. Ma questa volta, Marcello non afferrò una sola parola : il pazzo leggeva con voce chiara e molto alta, è vero, ma una fretta singolare gli faceva incastrare una parola dentro l’altra come se tutto il discorso non fosse stato che un solo vocabolo di lunghezza mai vista. Dovevano, egli pensò, le parole fondersi sulla sua lingua prim’ancora che le pronunziasse, quasi che il fuoco divorante della pazzia ne sciogliesse, come cera, le forme, amalgamandole in una sola materia oratoria molle, sfuggente e indistinta. Via via che leggeva le parole sembravano entrare più profondamente le une nelle altre, accorciandosi e rattrappendosi, e il pazzo stesso incominciò a parere soverchiato da questa specie di valanga verbale. Sempre più frequentemente, prese a gettar via i foglietti appena dopo averne letto le prime righe; finché, tutto ad un tratto, cessò di leggere del tutto, saltò con agilità sorprendente sul letto, e li, ritraendosi nell’angolo del capezzale, ritto contro il muro, prese, come pareva, a concionare.
Che arringasse, Marcello lo comprese più dai gesti che dalle parole al solito sconnesse e insensate: il pazzo, proprio come un oratore affacciato ad un immaginario balcone, ora alzava ambedue le braccia al soffitto; ora si piegava a sporgere una mano come per insinuare qualche sottigliezza; ora minacciava con il pugno chiuso; ora levava all’altezza del viso le due palme aperte. Ad un certo punto, dalla folla immaginaria cui il pazzo si rivolgeva, dovettero senza dubbio partire degli applausi; perché il pazzo, con gesto caratteristico della palma spianata in basso, parve impetrare il silenzio. Ma gli applausi palesemente non cessarono, anzi crebbero di intensità; allora il pazzo, dopo aver di nuovo richiesto il silenzio con quel suo gesto supplichevole, saltò giù dal letto, corse al professore e, afferrandolo per una manica, domandò con voce di pianto: « Ma li faccia star zitti... che m’importa degli applausi... una dichiarazione di guerra... come si può fare una dichiarazione di guerra, se con gli applausi ti impediscono di parlare? »
« La facciamo domani la dichiarazione di guerra, maggiore », disse il professore guardando al pazzo dall’alto della torreggiante persona.
« Domani, domani, domani », urlò il pazzo entrando in una subita furia tutta mescolata di stizza e di disperazione, « sempre domani... la dichiarazione di guerra si ha da fare subito ».
« E perché maggiore ? Che ce ne importa ? Con questo caldo? Quei poveri soldati, volete che facciano la guerra con questo caldo? » Il professore scrollò le spalle con gesto furbesco. Il pazzo lo guardò perplesso, l’obbiezione evidentemente lo sconcertava. Quindi gridò: «I soldati mangeranno dei gelati... d’estate si mangiano i gelati, no?»
«Si», disse il professore, «d’estate si mangiano i gelati ».
«Dunque», disse il pazzo con aria trionfante, «gelati, molti gelati, gelati per tutti». Borbottando, andò al tavolino, e, in piedi, impugnò la matita, scrisse in fretta alcune parole su un ultimo foglietto e poi venne a porgerlo al medico. « Ecco la dichiarazione di guerra... io non ce la faccio più... la porti lei a chi di dovere... queste campane, oh oh, queste campane». Diede il foglietto al medico e poi andò a rincantucciarsi in terra, nell’angolo presso il letto, come una bestia atterrita, stringendosi il capo tra le mani e ripetendo con angoscia: « Queste campane... non potrebbero smettere un momento queste campane? »
Il medico guardò di sfuggita il foglietto e poi lo porse a Marcello. In cima al foglio c’era scritto: « Strage e malinconia», e, più sotto: «La guerra e dichiarata», tutto con la solita calligrafia grande e piena di svolazzi. Il medico disse : « Strage e malinconia è il suo motto... lo troverete scritto su tutti quei foglietti... s’è fissato con quelle due parole ».
« Le campane », mugolava il pazzo.
« Ma le sente davvero ? » domandò la madre perplessa.
« Probabilmente si... sono allucinazioni dell’udito... come prima gli applausi... i malati possono udire varie specie di rumori... anche voci che dicono parole... oppure versi di animali... oppure rumori di motori, di una motocicletta per esempio».
« Le campane », urlò il pazzo con voce terribile. La madre indietreggiò verso la porta mormorando: « Ma deve essere spaventoso... povero caro, chissà come soffre... io, se mi trovo sotto un campanile quando suonano le campane, mi pare di impazzire ».
« Ma soffre? » domandò Marcello.
« Non soffrireste voi se per ore e ore udiste delle grosse campane di bronzo suonare a distesa vicinissime al vostro orecchio? » Il professore si voltò verso il malato e soggiunse : « Adesso le faremo tacere le campane... mandiamo il campanaro a dormire... Vi daremo qualche cosa da bere e non le sentirete più ». Fece un cenno all’infermiere che usci subito; poi, rivolgendosi a Marcello: «Sono forme di angoscia piuttosto gravi... il malato passa da un’euforia frenetica ad una depressione profonda... poco fa quando leggeva era esaltato, adesso è depresso... volete dirgli qualche cosa? »
Marcello guardò il padre che continuava a mugolare pietosamente, la testa tra le mani, e disse con voce fredda : « No, non ho nulla da dirgli e poi a che servirebbe?... Tanto non mi capirebbe ».
«Talvolta capiscono», disse il professore, «capiscono più di quanto non sembri, riconoscono le persone, ingannano anche noialtri medici... eh, eh, non è cosi semplice ».
La madre si avvicinò al pazzo e disse con affabilità: «Antonio, mi riconosci?... Questo è Marcello, tuo figlio... dopodomani si sposa... hai capito? Si sposa ».
Il pazzo guardò in su, verso la madre quasi con speranza, come un cane ferito guarda al padrone che si china su di lui e gli domanda con parole umane che cosa abbia. Il medico si voltò verso Marcello, esclamando : « Nozze, nozze... caro dottore, io non ne sapevo nulla... le mie più vive congratulazioni... i miei rallegramenti veramente sinceri».
« Grazie », disse Marcello asciutto.
La madre disse con ingenuità, avviandosi verso la porta: «Povero caro, non capisce... se capisse, non sarebbe contento, come non sono contenta io».
« Ti prego, mamma », disse Marcello brevemente.
«Non importa, tua moglie ha da piacere a te e non agli altri », rispose la madre conciliante. Ella si voltò verso il pazzo e gli disse : « Arrivederci, Antonio ».
« Le campane », mugolò il pazzo.
Uscirono nel corridoio, incrociandosi con Franz che entrava portando in un bicchiere la pozione calmante. Il professore chiuse la porta e disse: «È curioso, dottore, come i dementi si tengano al corrente e siano aggiornati... come siano sensibili a tutto quello che commuove la collettività... c’è il fascismo, c’è il duce, e allora voi troverete moltissimi malati che si fissano come vostro padre sul fascismo e sul duce... durante la guerra non si contavano i malati che si credevano generali e che volevano sostituire Cadorna o Diaz... e più recentemente, quando ci fu il volo di Nobile al polo nord, avevo almeno tre malati che sapevano di certo dove si trovasse la famosa tenda rossa e avevano inventato uno speciale apparecchio per soccorrere i naufraghi... i pazzi sono sempre attuali... in fondo, nonostante la pazzia non cessano di partecipare alla vita pubblica e la pazzia, appunto, è il mezzo di cui si servono per parteciparvi... naturalmente, da buoni cittadini pazzi quali sono». Il medico rise freddamente, assai compiaciuto del proprio spirito. E poi voltandosi verso la madre, ma con chiara intenzione adulativa nei riguardi di Marcello: «Ma per quanto riguarda il duce, siamo tutti pazzi come vostro marito, nevvero signora, tutti pazzi da legare, da trattare con la doccia e la camicia di forza... tutta l’Italia non è che un solo manicomio, eh, eh, eh ».
«Mio figlio, per quest’aspetto è pazzo di certo», disse la madre secondando ingenuamente l’adulazione del medico « anzi, proprio venendo qui, glielo dicevo a Marcello, che c’erano dei punti di contatto tra lui e il suo povero padre».
Marcello rallentò il passo per non udirli. Li vide avviarsi verso il fondo del corridoio e poi svoltare e scomparire, sempre chiacchierando. Si fermò, aveva tuttora in mano il foglietto sul quale il padre aveva scritto la sua dichiarazione di guerra. Esitò, trasse di tasca il portafogli, e vi chiuse il foglietto. Poi affrettò il passo e raggiunse il medico e la madre a pianterreno.
« Allora... arrivederci professore », diceva la madre, « ma quel povero caro... non c’è proprio modo di guarirlo ? »
« Per ora la scienza non può farci nulla », rispose il medico senza alcuna solennità, come ripetendo una formula meccanica e logora.
«Arrivederci professore», disse Marcello.
« Arrivederci, dottore, e ancora sinceri, vivissimi rallegramenti ».
Essi camminarono per il vialetto ghiaiate, uscirono nella strada, si avviarono verso la macchina. Alberi era là, presso lo sportello aperto, il berretto in mano. Salirono senza dir parola e la macchina parti. Marcello stette un momento zitto e poi domandò alla madre: «Mamma, vorrei farti una domanda... credo che posso parlarti francamente, no? »
«Quale domanda?» disse la madre distrattamente, acconciandosi il viso nello specchietto del portacipria.
«Colui che io chiamo mio padre e che abbiamo or ora visitato, è veramente mio padre? »
La madre si mise a ridere : « Davvero che qualche volta sei proprio strano... e perché non dovrebbe esser tuo padre ? »
« Mamma... tu avevi già allora », Marcello esitò e poi finì, « degli amanti... potrebbe darsi... ? »
«Oh, ma non potrebbe darsi proprio nulla», disse la madre con tranquillo cinismo, « la prima volta che mi decisi a tradire tuo padre, tu avevi già due anni... il più curioso si è », ella soggiunse, «che proprio con questa idea che tu fossi figlio di un altro, cominciò la pazzia di tuo padre... si era fissato che tu non fossi figlio suo... e sai che fece un giorno?... Prese una fotografia, di me e di te bambino... ».
« E bucò gli occhi a tutti e due », fini Marcello.
« Ah, lo sapevi », disse la madre un po’ stupita, « ebbene quello fu proprio l’inizio della sua pazzia... era ossessionato dall’idea che tu fossi figlio di un tale che allora vedevo qualche volta... inutile dire che era una sua immaginazione... tu sei figlio suo, basterebbe guardarti... ».
« Veramente somiglio più a te che a lui », non potè fare a meno di dire Marcello.
« A tutti e due », ribadì la madre. Rimise il portacipria nella borsa e soggiunse: «Te l’ho già detto: se non altro, avete tutti e due la fissazione della politica... lui però da matto e tu, grazie a Dio, da persona sana... ».
Marcello non disse nulla e girò il viso verso il finestrino. L’idea di somigliare a suo padre gli ispirava un fastidio intenso. I rapporti familiari riferiti al sangue e alla carne, gli avevano sempre ripugnato, come una determinazione impura e ingiusta. Ma la somiglianza cui alludeva sua madre oltre che ripugnargli, lo spaventava oscuramente. Che nesso correva tra la pazzia paterna e l'esser suo più segreto? Ricordò la frase letta nel foglietto : « Strage e malinconia », e rabbrividì pensosamente. La malinconia, egli l’aveva addosso, come una seconda pelle, più sensibile di quella vera; quanto alla strage...
Adesso la macchina attraversava le strade del centro della città, nella luce falsa e azzurra del crepuscolo. Marcello disse alla madre: «Scendo qui», e si chinò a picchiare nel vetro per avvertire Alberi. La madre disse: «Allora ti rivedo al tuo ritorno », implicitamente sottintendendo che non sarebbe venuta alle nozze; ed egli le fu grato della reticenza: a questo, almeno, servivano la leggerezza e il cinismo. Discese, richiuse con forza lo sportello, e si allontanò tra la folla.
 
Alberto Moravia
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