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Il conformista 151


Alberto Moravia - Il conformista
PARTE PRIMA - CAPITOLO QUARTO (cont.)
Marcello andò sollecitamente ad abbassare l’imposta; poi si avvicinò a sua madre e prendendola per un braccio, la fece sedere accanto a sé, sul bordo del letto, e le domandò dolcemente : « E tu mamma come fai a sopportare questo disordine? »
Ella lo guardò, incerta, imbarazzata : « Non so come avviene... dovrei, ogni volta che mi servo di un oggetto, rimetterlo al suo posto... ma, in qualche modo, non riesco mai a ricordarmene».
« Mamma », disse ad un tratto Marcello, « ogni età ha la sua maniera di essere decorosa... perché, mamma, ti sei lasciata andare in questo modo? »
Le stringeva una mano; con l’altra mano ella reggeva in aria una stampella dalla quale pendeva un vestito. Per un momento, gli parve di scorgere in quegli occhi enormi e puerilmente afflitti quasi un sentimento di consapevole dolore: le labbra della madre, infatti, ebbero un leggero tremito. Poi, improvvisa, un’espressione indispettita scacciò ogni commozione. Ella esclamò: « Tutto quello che sono e che faccio non ti piace, lo so... non puoi soffrire i mie cani, i miei vestiti, le mie abitudini... ma io sono ancora giovane, caro mio, e voglio godermi la vita a modo mio... e ora lasciami », concluse ritirando bruscamente la mano, a se no non mi vestirò mai».
Marcello non disse nulla. La madre andò in un angolo, si liberò della vestaglia che lasciò cadere in terra, poi apri l'armadio e si infilò il vestito davanti lo specchio dello sportello. Vestita, si rivelava ancor più l’eccessiva magrezza dei fianchi aguzzi, delle spalle incavate e del petto sfornito. Ella si guardò un momento nello specchio, accomodandosi i capelli con una mano, quindi, saltellando, si infilò due tra le tante scarpe sparse sul pavimento. « Ora andiamo », disse prendendo una borsa dal cassettone e avviandosi verso la porta.
« Non ti metti il cappello ? »
« Perché? Non ce n’è bisogno ».
Presero a scendere la scala. La madre disse : « Non mi hai parlato del tuo matrimonio».
« Mi sposo dopodomani ».
« E dove vai in viaggio di nozze ? »
«A Parigi».
« Il viaggio di nozze tradizionale », disse la madre. Giunta nel vestibolo andò alla porta della cucina e avverti la cuoca: «Matilde, mi raccomando... prima di notte faccia rientrare i cani in casa».
Uscirono nel giardino. La macchina, nera e opaca, era là, dietro gli alberi, ferma nel viale di accesso. La madre disse : « Allora è deciso, non vuoi venire a stare qui con me... sebbene tua moglie non mi sia simpatica, avrei fatto anche questo sacrificio... e poi ho tanto posto ».
« No, mamma », rispose Marcello.
« Preferisci andare da tua suocera», ella disse leggermente, «in quell'orribile appartamento: quattro camere e cucina». Ella si chinò e fece per cogliere un filo d’erba; ma in cosi fare, vacillò e sarebbe caduta se Marcello, pronto, non l’avesse sorretta, prendendola per un braccio. Egli senti sotto le dita la carne scarsa e molle del braccio che pareva muoversi intorno l’osso, come un cencio legato intorno un bastone, e provò di nuovo compassione di lei. Entrarono nella macchina, con Alberi che teneva aperto lo sportello, il berretto in mano. Poi Alberi sali al suo posto e guidò la macchina fuori del cancello. Marcello approfittò del momento che Alberi era disceso di nuovo per andare a richiudere il cancello, per dire a sua madre: « Verrei a stare da te molto volentieri... se tu licenziassi Alberi e mettessi un po’ di ordine nella tua vita... e cessassi quelle iniezioni ».
Ella lo guardò di sbieco con occhi incomprensivi, Ma il naso affilato aveva un tremito che finalmente si comunicò alla bocca piccola e vizza, in un pallido e stravolto sorriso. «Sai cosa dice il dottore?... Che un giorno potrei anche morirne ».
« E allora perché non smetti ? »
« Ma tu dimmi perche dovrei smettere».
Alberi risali nella macchina assestandosi sul naso gli occhiali neri. La madre si chinò in avanti, gli posò una mano sulla spalla. Era una mano magra, trasparente, con la pelle tesa sui tendini e chiazzata di macchie rosse e bluastre, e le unghie di uno scarlatto quasi nero. Marcello avrebbe voluto non guardare, ma non potè. Vide la mano muoversi sulla spalla dell’uomo fino a vellicargli, con leggera carezza, l’orecchio. La madre disse: « Allora andiamo alla clinica ».
« Sta bene, signora », disse Alberi senza voltarsi.
La madre chiuse il vetro di divisione e si gettò sui cuscini, mentre la macchina, dolcemente, si avviava. Ricadendo sul sedile, guardò il figlio in tralice e, con sorpresa di Marcello, che non si aspettava tanta intuizione, disse: «Sei arrabbiato perché ho fatto una carezzina ad Alberi, nevvero? »
Cosi dicendo lo guardava, con quel suo sorriso puerile, disperato e leggermente convulso. Marcello non riuscì a modificare l’espressione infastidita del volto. Rispose: «Non sono arrabbiato... avrei preferito non aver veduto ».
Ella disse, senza guardarlo: «Tu non puoi capire cosa vuol dire per una donna non essere più giovane... è peggio della morte».
Marcello tacque. La macchina trascorreva adesso silenziosamente sotto gli alberi del pepe, i cui rami piumosi frusciavano contro i vetri dei finestrini. La madre soggiunse dopo un momento: «Certe volte vorrei essere già vecchia... sarei una vecchietta magra, pulita », ella sorrise contenta e già distratta da questa immaginazione, « simile ad un fiore secco conservato tra le pagine di un libro». Posò la mano sul braccio di Marcello e domandò : « Non preferiresti aver per madre una vecchietta simile, ben stagionata, ben conservata, come nella naftalina? »
Marcello la guardò e rispose impacciato: «Un giorno sarai cosi ».
Ella si fece grave e disse sogguardandolo e sorridendo squallidamente: «Ci credi sul serio?... Io invece, sono convinta che una di queste mattine mi troverai morta in quella stanza che detesti tanto».
« Perché mamma ? » domandò Marcello ; ma si rendeva conto che la madre parlava seriamente e poteva anche aver ragione : « Sei giovane e devi vivere ».
«Non toglie che morirò presto, lo so, me l’hanno letto nell’oroscopo». Ella tese improvvisamente la mano sotto i suoi occhi, soggiungendo, senza transizione : « Ti piace quest’anello ? »
Era un grosso anello, dal castone elaborato, con una pietra dura di colore lattescente. « Si », disse Marcello guardandolo appena, «è bello».
« Lo sai », disse la madre volubilmente, « talvolta penso che tu abbia preso tutto da tuo padre... anche lui, quando ragionava ancora, non amava nulla... le cose belle non gli dicevano nulla... non pensava che alla politica... come te».
Questa volta, non sapeva neppur lui perché, Marcello non potè reprimere un vivo senso di irritazione. « Mi pare », disse, « che tra mio padre e me non ci sia nulla in comune... io sono una persona perfettamente ragionevole, normale insomma... lui invece, anche quando non era ancora in clinica, a quanto mi ricordo e tu me l’hai sempre confermato, era sempre... come dire?... un po’ esaltato».
« Si, ma qualche cosa in comune ce l’avete... non vi divertite nella vita e non vorreste che gli altri si divertissero... ». Ella guardò un momento fuori del finestrino e soggiunse improvvisamente : « Io non verrò al tuo matrimonio... del resto non devi offenderti, non vado più in alcun luogo... ma siccome, dopo tutto, sei mio figlio, penso che debbo farti un regalo... che cosa vorresti?»
«Nulla, mamma», rispose Marcello con indifferenza.
« Peccato », disse la madre con ingenuità, « se avessi saputo che non volevi nulla, non avrei speso il denaro... ma ormai l’ho comprato... prendi ». Frugò nella borsetta e ne trasse una scatoletta bianca legata con un elastico: « È un portasigarette... avevo osservato che metti in tasca il pacchetto... ». Apri la scatola, ne trasse un astuccio d’argento, piatto e fittamente rigato, e lo fece scattare, porgendolo al figlio. Era pieno di sigarette orientali e la madre ne approfittò per prenderne una e farsela accendere da Marcello. Il quale disse, un po’ imbarazzato, guardando al portasigarette aperto sulle ginocchia della madre, senza toccarlo : « È molto bello e non so come ringraziarti, mamma... forse per me è troppo bello ».
« Uff », disse la madre, « come sei noioso ». Chiuse il portasigarette e lo ficcò, con gesto graziosamente intollerante, nella tasca della giubba di Marcello. La macchina girò un po’ bruscamente intorno l’angolo di una strada, e la madre cadde addosso a Marcello. Ella ne approfittò per mettergli le due mani sulle spalle, rovesciando un poco il capo indietro e guardandolo: «Dammi un bacio per il regalo, vuoi ? »
Marcello si chinò e sfiorò con le labbra la guancia della madre. Ella si gettò indietro sul sedile e disse con un sospiro, portando una mano al petto: « Che caldo... quando eri piccolo, non avrei dovuto chiedertelo il bacio... eri un bambino tanto affettuoso ».
« Mamma», disse Marcello improvvisamente, «ti ricordi dell’inverno in cui il babbo si ammalò? »
« Altroché », disse la madre ingenuamente, « fu un inverno terribile... lui voleva separarsi da me e portarti via... era già matto... per fortuna, dico per fortuna per te, ammattì del tutto e allora si vide che avevo ragione io a desiderare di tenerti con me... perché? »
«Ebbene mamma», disse Marcello evitando di guardare sua madre, « quell’inverno il mio sogno era di non vivere più con voialtri, tu e il babbo, e di essere messo in collegio... il che non mi impediva di volervi bene... per questo, quando tu dici che sono cambiato da allora, non dici una cosa giusta... ero allora come sono adesso... e allora, come adesso, non potevo soffrire la baraonda e il disordine... ecco tutto». Aveva parlato seccamente e quasi con durezza; ma, quasi subito, vedendo un’espressione mortificata oscurare il viso della madre, si penti. Tuttavia non volle dir nulla che potesse suonare come una ritrattazione: aveva detto la verità e, purtroppo, non poteva dire che la verità. Ma, nello stesso tempo, risvegliata dalla spiacevole consapevolezza di aver mancato di pietà filiale, avverti di nuovo e più forte che mai, l’oppressione della solita malinconia. La madre disse, in tono rassegnato: «Forse hai ragione tu». In quel momento la macchina si fermò.
Discesero e si avviarono verso il cancello della clinica. La strada si trovava in un quartiere tranquillo, ai margini di un’antica villa reale. Era una strada breve: da una parte si allineavano cinque o sei palazzine vecchiotte in parte nascoste tra gli alberi: dall’altra correva la cancellata della clinica. In fondo, sbarrava la vista il vecchio muro grigio e la folta vegetazione del parco reale. Marcello visitava suo padre almeno una volta al mese da molti anni; tuttavia non si era ancora abituato a queste visite e provava ogni volta un senso mescolato di ribrezzo e di sconforto. Era un po’ lo stesso sentimento che gli ispiravano le visite a sua madre, nella villa in cui aveva passato l’infanzia e l’adolescenza; ma tanto più forte: il disordine e la corruzione materna sembravano ancora riparabili; ma per la pazzia del padre non c’erano rimedi ed essa pareva alludere ad un disordine e ad una corruzione più generali e del tutto insanabili. Cosi, anche questa volta, entrando in quella strada a fianco di sua madre, egli senti un abominevole malessere opprimergli il cuore e fargli piegare le ginocchia. Capi di essere diventato pallido e, per un momento, pur guardando di sfuggita alle lance nere della cancellata della clinica, provò un desiderio isterico di rinunziare alla visita e allontanarsi con un pretesto. La madre, che non si era accorta del suo turbamento, disse fermandosi davanti un piccolo cancello nero e premendo il bottone di porcellana di un campanello: « Sai qual è la sua ultima fissazione? »
« Quale ? »
« Quella di essere uno dei ministri di Mussolini... gli è cominciata da un mese... forse perché gli lasciano leggere i giornali ».
Marcello aggrottò le sopracciglia ma non disse nulla. Il cancello si apri e apparve un giovane infermiere in camice bianco : corpulento, alto, biondo, con la testa rasata e il viso bianco e un po’ gonfio. « Buon giorno, Franz », disse la madre graziosamente. «Come va? »
«Oggi stiamo meglio di ieri», disse l’infermiere con un suo duro accento tedesco, « ieri siamo stati molto male ».
« Molto male? »
« Abbiamo dovuto indossare la camicia di forza », spiegò l’infermiere continuando ad adoperare il plurale, un po’ alla maniera leziosa delle governanti quando parlano dei bambini.
« La camicia di forza... che orrore». Intanto erano entrati e camminavano per lo stretto viale, tra il muro di cinta e la parete della clinica. « La camicia di forza, dovresti vederla... non è veramente una camicia ma come due maniche che gli tengono le braccia ferme... prima di vederla, io pensavo che fosse una vera e propria camicia da notte, di quelle con la greca in fondo... è cosi triste vederlo legato a quel modo con le braccia strette ai fianchi». La madre continuò a parlare leggermente, quasi allegramente. Girarono intorno la clinica e sbucarono in uno spiazzo, davanti la facciata principale. La clinica, palazzina bianca di tre piani, aveva un aspetto di normale dimora, non fossero state le inferriate che oscuravano le finestre. L’infermiere disse, salendo in fretta la scala sotto il verone : « Il professore vi aspetta, signora Clerici ». Egli precedette i due visitatori in un ingresso nudo e in ombra, e andò a picchiare ad una porta chiusa, al di sopra della quale, su una targa smaltata, si leggeva: «direzione».
La porta si apri subito e il direttore della clinica, il professor Ermini, ne scaturì, precipitandosi, con tutta l’irruenza della persona torreggiante e massiccia, incontro ai visitatori. « Signora, i miei omaggi... dottor Clerici, buongiorno ». La sua voce stentorea risuonava come un gong di bronzo nel silenzio gelato della clinica, tra quelle pareti nude. La madre gli tese la mano che il professore, piegando con sforzo visibile il corpaccione avviluppato nel camice, volle galantemente baciare; Marcello, invece, si limitò a un sobrio saluto. Il professore nel viso somigliava assai ad un barbagianni: occhi grandi, rotondi, grosso naso ricurvo, a becco, baffi rossi spioventi sopra la larga bocca clamorosa; ma l’espressione non era quella del malinconico uccello notturno, bensì gioviale, seppure di una giovialità studiata e venata di fredda accortezza. Egli precedette la madre e Marcello su per la scala. Come giunsero a metà della rampa, un oggetto metallico scagliato con forza dal pianerottolo rotolò rimbalzando sugli scalini. Nello stesso tempo echeggiò un grido acutissimo seguito da una sghignazzata. Il professore si chinò a raccogliere l’oggetto : un piatto di alluminio: « La Donegalli », disse voltandosi verso i due visitatori, « niente paura... si tratta di una vecchia signora di solito tranquillissima che, però, ogni tanto le piglia di tirare quanto le capita sotto mano... eh eh, sarebbe campionessa di bocce, se la lasciassimo fare ». Egli porse il piatto all’infermiere e si avviò chiacchierando, per un lungo corridoio, tra due file di porte chiuse. « E come mai signora, ancora a Roma? Io vi credevo già in montagna o al mare».
« Partirò tra un mese... », disse la madre. « Ma non so dove andrò... per una volta vorrei evitare Venezia ».
« Un consiglio signora», disse il professore girando intorno l’angolo del corridoio, « andate a Ischia... ci sono stato proprio l’altro giorno in gita... una meraviglia... siamo andati nel ristorante di un certo Carminiello: abbiamo mangiato una zuppa di pesce che era semplicemente un poema». Il professore si voltò a metà e fece un gesto volgare ma espressivo con due dita all’angolo della bocca : « Un poema, vi dico: tocchi di pesci grossi cosi... e poi un po’ di tutto: il polpettello, lo scorfanello, il palombetto, l’ostricuccia tanto buona, il gamberetto, il totanucciò... e tutto con un sughillo alla marinara... aglio, olio, pomodoro, peperoncino... signora non dico altro ». Dopo avere adottato, per descrivere la zuppa di pesce un falso e giocoso accento napoletano, il professore ricadde nel nativo romanesco, soggiungendo: «Sapete cosa ho detto a mia moglie? Vuoi vedere che dentro l’anno ci facciamo la casetta a Ischia? »
La madre disse: «Preferisco Capri».
« Ma quello è un luogo per letterati e invertiti », disse il professore con distratta brutalità. In quel momento si udì giungere da una delle celle uno strido acutissimo. Il professore si avvicinò alla porta, apri lo spioncino, guardò un momento, richiuse lo spioncino e, quindi, girandosi, concluse : « Ischia, cara signora... Ischia è il luogo: zuppa di pesce, mare, sole, vita all’aperto... non c’è che Ischia ».
L’infermiere Franz, che li aveva preceduti di qualche passo, adesso aspettava, immobile presso una delle porte, la figura massiccia disegnata nel chiarore della finestra che stava all’estremità del corridoio. « Ha preso la pozione ? » domandò a bassa voce il professore. L’infermiere accennò di si. Il professore apri ed entrò, seguito dalla madre e da Marcello.
Era una piccola stanza nuda, con un letto fissato alla parete e un tavolino di legno bianco di fronte alla finestra sbarrata dalle solite inferriate. Seduto al tavolino, le spalle alla porta, intento a scrivere, Marcello, con un brivido di ripugnanza, vide suo padre. Una sfuriata di capelli bianchi si levava dalla testa, sopra la nuca esile imbucata nel largo collo della rigida casacca di rigatino. Stava seduto un po’ di sghembo, i piedi infilati in due enormi pantofole di feltro, i gomiti e le ginocchia in fuori, la testa reclinata da un lato. In tutto simile, pensò Marcello, ad un burattino dai fili rotti. L’ingresso dei tre visitatori non lo fece voltare; anzi egli parve raddoppiare di attenzione e di zelo nella scrittura. Il professore andò a mettersi tra la finestra e il tavolo e disse con falsa giovialità: «Maggiore, come va, oggi... eh come va? »
Il pazzo non rispose e si limitò ad alzare una mano come per dire: «Un momento, non vedete che sono occupato». Il professore lanciò uno sguardo d’intesa alla madre e disse : « Sempre quel memoriale, eh, maggiore... ma non verrà troppo lungo?... Il duce non ha il tempo di leggere cose troppo lunghe... lui stesso è sempre breve, conciso... brevità, concisione, maggiore ».
 
Alberto Moravia
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