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Il conformista 151


Alberto Moravia - Il conformista
PARTE PRIMA
CAPITOLO QUARTO

Come Marcello discese dall’autobus, nel quartiere dove abitava sua madre, si accorse quasi subito di essere seguito a distanza da un uomo. Pur camminando senza fretta lungo i muri di cinta dei giardini, per la strada deserta, lo guardò di sfuggita. Era un uomo di mezza statura, un po’ corpulento, con una faccia quadrata dall’espressione onesta e bonaria ma non priva di una certa sorniona furbizia, come avviene spesso nei contadini. Indossava un leggero vestito di un colore sbiadito tra il marrone e il viola e portava un cappello chiaro, di un grigio falso, ben calcato sulla testa, ma con la falda sollevata sulla fronte, al modo, appunto, dei contadini. L’avesse veduto nella piazza di un borgo, in giorno di mercato, Marcello l’avrebbe scambiato per un fattore. L’uomo aveva viaggiato nello stesso autobus di Marcello, era disceso alla stessa fermata e adesso lo seguiva sull’altro marciapiede, senza troppo curarsi di nasconderlo, regolando il passo su quello di Marcello, non lasciandolo un momento con gli occhi. Ma questo sguardo fisso pareva incerto; come se l’uomo non fosse del tutto sicuro dell’identità di Marcello e volesse studiarne la fisionomia prima di avvicinarlo.
Risalirono cosi, insieme, la strada in pendio, nel silenzio e nel caldo delle prime ore pomeridiane.
Oltre le lance dei cancelli chiusi non si vedeva nessuno nei giardini; nessuno parimenti si scorgeva, per quanto lunga era la strada, sotto la verde galleria formata dalle chiome aggrondate degli alberi del pepe. Questo deserto e questo silenzio insospettirono finalmente Marcello come condizioni favorevoli per una sorpresa o per un’aggressione e come tali prescelte non a caso dal suo inseguitore. Bruscamente, con subitanea decisione, discese dal marciapiede e attraversò la strada muovendo incontro all’uomo. «Forse cercavate me?» gli domandò come si trovarono a qualche passo l’uno dall’altro.
L’uomo si era fermato anche lui e, alla domanda di Marcello, con espressione quasi timorosa : « Scusatemi », disse con voce sommessa, « vi ho seguito soltanto perché forse andiamo tutti e due nello stesso luogo... altrimenti non mi sarei mai permesso... scusatemi, non siete voi il dottor Clerici? »
« Si, sono io », disse Marcello, « e voi chi siete? »
« Agente in servizio speciale Orlando », disse l’uomo abbozzando un saluto quasi militare, « mi manda il colonnello Baudino... mi aveva dato due vostri indirizzi... quello della pensione dove abitate e questo... siccome alla pensione non vi ho trovato, sono venuto a cercarvi qui e per una combinazione voi eravate nello stesso autobus... si tratta di una cosa urgente ».
«Venite pure», disse Marcello avviandosi senza più verso il cancello della villa materna. Egli cavò di tasca la chiave, apri il cancello e invitò l’uomo ad entrare. L’agente ubbidì togliendosi con rispetto il cappello e scoprendo una testa perfettamente rotonda, con i capelli radi e neri, e, nel centro del cranio, una calvizie bianca e circolare che faceva pensare ad una tonsura. Marcello lo precedette per il viale dirigendosi verso il fondo del giardino dove, sotto una pergola, sapeva esserci un tavolo e due seggiole di ferro. Pur camminando avanti all’agente, non potè fare a meno di osservare una volta di più l’aspetto negletto e inselvatichito del giardino. La ghiaia bianca e pulita sulla quale, bambino, si era divertito a correre su e giù, era da anni scomparsa, interrata o dispersa; il tracciato del viale, invaso dall’erbaccia, era rivelato più che altro dai resti delle due piccole siepi di mortella, ineguali e interrotti ma ancora riconoscibili. Ai due lati delle siepi, le aiuole erano anch’esse ricoperte di rigogliose erbe campestri; ai roseti e alle altre piante da fiori erano subentrati ispidi arbusti e rovi in inestricabili viluppi. Qua e là, poi, all’ombra degli alberi, si vedevano mucchi di immondizie, cassette da imballaggio sfondate, bottiglie rotte e altri simili oggetti eterocliti che di solito vengono confinati nelle soffitte. Egli torse gli occhi, disgustato, da questa vista, domandandosi, una volta di più, con una meraviglia accorata: «Ma perché non lo rimettono in ordine? Ci vorrebbe cosi poco... perché?» Più avanti, il viale correva tra la parete della villa e il muro di cinta, quello stesso muro ricoperto di edera, attraverso il quale, bambino, era solito comunicare con il vicino Roberto. Egli precedette l’agente sotto la pergola e sedette sulla poltroncina di ferro, invitandolo a sedersi anche lui. Ma l’agente rimase rispettosamente in piedi. « Signor dottore » disse in fretta « si tratta di poca cosa... sono incaricato di dirvi da parte del colonnello che sulla strada di Parigi voi dovete fermarvi a S. » e l’agente nominò una città non lontana dalla frontiera « e cercare del signor Gabrio, al numero tre di via dei Glicini ».
« Un mutamento di programma », pensò Marcello.
Era caratteristico del Servizio Segreto, come sapeva, di cambiare apposta, all’ultimo momento, le sue disposizioni, al fine di disperdere le responsabilità e imbrogliare le tracce. « Ma cosa c’è in via dei Glicini ? » non potè fare a meno di domandare, « un appartamento privato? »
« Veramente no, signor dottore », disse l’agente con un largo sorriso tra imbarazzato e allusivo, « c’è una casa di tolleranza... la tenutaria si chiama Enrichetta Parodi... ma voi chiedetere del signor Gabrio... la casa, come tutte quelle case, è aperta fino a mezzanotte... però, dottore, sarebbe meglio che ci andaste la mattina presto... quando non c’è nessuno... ci sarò anch’io ». L’agente tacque un momento, poi, incapace di interpretare il viso del tutto inespressivo di Marcello, soggiunse impacciato : « È per essere più sicuri, dottore ».
Marcello, senza dir parola, levò gli occhi verso l’agente e lo considerò un momento. Ora doveva congedarlo, ma, non sapeva neppur lui perché, forse per l’espressione onesta e familiare del largo viso quadrato, desiderava aggiungere qualche frase non ufficiale, dimostrante simpatia da parte sua. Domandò finalmente, a caso : « Da quanto tempo siete in servizio, Orlando ? »
« Dal 1925, dottore ».
« Sempre in Italia ? »
« Vuol dire quasi mai, dottore », rispose l’agente con un sospiro, evidentemente desideroso di confidenza « eh, dottore, se vi dicessi quello che è stato la mia vita e che cosa ho passato... sempre in movimento: Turchia, Francia, Germania, Kenia, Tunisia... mai fermo ». Tacque un momento, guardando fisso Marcello; quindi, con enfasi retorica e tuttavia sincera,
soggiunse: « Tutto per la famiglia e per la patria, signor dottore».
Marcello levò gli occhi e guardò di nuovo l’agente che stava ritto, il cappello in mano, quasi sull’attenti; e poi, con un gesto di commiato, disse : « Allora va bene Orlando... riferite pure al colonnello che mi fermerò ad S., come desidera ».
« Si, signor dottore ». L’agente salutò e si allontanò lungo la parete della villa.
Rimasto solo, Marcello fissò il vuoto davanti a sé. Faceva caldo sotto la pergola e il sole, filtrando tra le foglie e i rami della vite americana, gli ardeva il viso con tante medaglie di luce abbagliante. Il tavolino di ferro smaltato, un tempo candido, adesso era di un bianco sporco, chiazzato in più punti di scrostature nere e rugginose. Fuori della pergola, poteva vedere il tratto del muro di cinta dove era il pertugio nell’edera, attraverso il quale era stato solito comunicare con Roberto. L’edera era sempre là e forse sarebbe stato ancora possibile affacciarsi nel giardino attiguo; ma la famiglia di Roberto non abitava più nella villa vicina, ora ci stava un dentista che vi riceveva la clientela. Una lucertola discese improvvisamente dal fusto della vite americana e si avanzò senza paura sul tavolino. Era una grossa lucertola della specie più comune, dal dorso verde e dalla pancia bianca che palpitava contro lo smalto ingiallito del tavolo. La lucertola si avvicinò rapidamente a Marcello, a piccoli passi guizzanti, e quindi stette ferma, la testa aguzza levata verso di lui, i piccoli occhi neri fissati in avanti. Egli la guardò con affetto e rimase fermo per timore di spaventarla. Intanto ricordava di quando, ragazzo, aveva ammazzato le lucertole e poi, per liberarsi dal rimorso, aveva cercato invano una complicità e una solidarietà nel timido Roberto.
Allora non gli era riuscito di trovare nessuno che lo alleggerisse del fardello della colpa. Era rimasto solo di fronte alla morte delle lucertole; e in questa solitudine, aveva ravvisato l’indizio del delitto. Ma adesso, pensò, non era, non sarebbe più stato solo. Anche se avesse commesso un delitto, purché l’avesse commesso per certi fini, si sarebbero schierati accanto a lui lo stato, le organizzazioni politiche, sociali e militari che ne dipendevano, grandi masse di persone che la pensavano come lui e, fuori d’Italia, altri stati, altri milioni di persone. Quanto stava per fare, rifletté, era, comunque, molto peggio che ammazzare alcune lucertole; e tuttavia tanti erano con lui, a cominciare dall’agente Orlando, brav’uomo, ammogliato, padre di cinque figli. « Per la famiglia e per la patria »; questa frase cosi ingenua nonostante l’enfasi, simile ad una bella bandiera dai colori chiari che in un giorno di sole sventoli ad una brezza allegra mentre la fanfara risuona e i soldati passano; questa frase gli echeggiava all’orecchio, esaltante e mesta, mescolata di speranza e di tristezza. « Per la famiglia e per la patria », pensò, « ad Orlando basta... perché non dovrebbe bastare anche a me? »
Udì un rumore di motore nel giardino, verso l’ingresso, e subito si alzò, con un movimento brusco che fece fuggire la lucertola. Senza fretta, usci dalla pergola e si avviò verso l’ingresso. Una vecchia automobile nera stava ferma nel viale, a poca distanza dal cancello ancora spalancato. L’autista, vestito di una livrea bianca a passamani turchini, stava chiudendo il cancello ma, come vide Marcello, si fermò sollevando il berretto.
« Alberi », disse Marcello con la sua voce più quieta, « oggi andiamo alla clinica, è inutile che rimettete la macchina nel garage ».
« Si, signor Marcello », rispose l’autista. Marcello gli lanciò un’occhiata di sbieco. Alberi era un giovane dalla carnagione olivastra e dagli occhi neri come il carbone, con la sclerotica di una bianchezza lucida di porcellana. Aveva tratti molto regolari, denti candidi e serrati, capelli neri accuratamente impomatati. Non alto, dava, però, un senso di grande proporzione forse per via delle mani e dei piedi molto piccoli. Aveva l’età di Marcello ma sembrava più vecchio, a causa, forse, della mollezza orientale che si insinuava in ogni suo tratto e pareva destinata, col tempo, a diventare pinguedine. Marcello lo guardò ancora una volta, mentre chiudeva il cancello, con profonda avversione; quindi si avviò verso la villa.
Apri la portafinestra ed entrò nel salotto, quasi al buio. Subito lo colpi il tanfo che ammorbava l’aria, ancora leggero in confronto a quello delle altre stanze in cui i dieci pechinesi di sua madre si aggiravano liberamente, ma tanto più notevole qui dove non penetravano quasi mai. Aprendo la finestra, un po’ di luce entrò nella sala ed egli vide per un momento i mobili coperti di foderine grigie, i tappeti arrotolati e appoggiati ritti negli angoli, il pianoforte imbacuccato in lenzuoli appuntati con spilli. Traversò il salotto e la sala da pranzo, passò nel vestibolo, si avviò su per la scala. A mezza rampa, sul marmo di un gradino (il tappeto, troppo logoro, da tempo era scomparso e non era stato mai rinnovato), c’era un escremento di cane ed egli ci girò intorno per non calpestarlo. Giunto sul ballatoio, andò alla porta della camera materna e l’apri. Non fece neppure a tempo a disserrarla completamente che, come un fiotto a lungo contenuto il quale trabocchi improvviso, tutti e dieci i pechinesi gli si gettarono tra le gambe, sparpagliandosi con qualche abbaiamento per il ballatoio e la scala. Incerto e annoiato, li guardò correre via, graziosi con le loro code a pennacchio e i loro musi scontenti e quasi gatteschi. Poi, dalla camera immersa nella penombra, gli giunse la voce di sua madre : « Sei tu, Marcello ? »
« Si, mamma, sono io... ma questi cani? »
« Lasciali andare... poveri santi... sono stati chiusi tutta la mattina... lasciali pure andare».
Marcello aggrottò le sopracciglia in segno di malumore ed entrò. L’aria nella camera gli parve subito irrespirabile: le finestre chiuse avevano conservato dalla notte, mischiati, i diversi odori del sonno, dei cani e dei profumi; il calore del sole che ardeva dietro le imposte, pareva già farli fermentare e inacidire. Rigido, guardingo, quasi avesse temuto, muovendosi, di sporcarsi o di impregnarsi di quegli odori, andò al letto e sedette sulla sponda, le mani sulle ginocchia.
Adesso, pian piano, abituandosi gli occhi alla penombra, poteva vedere la camera intera. Sotto la finestra, nel chiarore diffuso dalle lunghe tende ingiallite e impure che gli parevano fatte dello stesso floscio tessuto dei molti panni intimi sparsi per la stanza, stavano allineati numerosi piatti di alluminio con il cibo dei cani. Il pavimento era sparso di scarpette e di calze; presso l’uscio del bagno, in un angolo quasi buio, si intravvedeva una vestaglia rosa rimasta su una seggiola, come era stata gettata la sera avanti, mezza in terra e con una manica penzolante. Dalla camera, il suo occhio freddo e pieno di ripugnanza passò al letto sul quale giaceva sua madre. Al solito, ella non aveva pensato a ricoprirsi al suo ingresso ed era seminuda. Distesa, le braccia alzate e le mani riunite dietro la testa, contro la spalliera materassata di seta azzurra lisa e annerita, ella lo guardava fissamente, in silenzio. Sotto la massa dei capelli spartiti in due gonfie ali brune, il viso appariva fine e smunto, quasi triangolare, divorato dagli occhi che l’ombra ingrandiva e incupiva in maniera mortuaria. Ella indossava una trasparente sottoveste verdolina che le giungeva appena al sommo delle cosce; e, una volta di più, lo fece pensare piuttosto che alla donna matura che era, ad una bambina invecchiata e insecchita. Il petto scarnito mostrava sullo sterno come una rastrelliera di ossicini aguzzi; attraverso il velo, le mammelle riassorbite si rivelavano con due macchie scure e tonde, senza alcun rilievo. Ma soprattutto le cosce destavano insieme ripugnanza e pietà in Marcello: magre e sfornite erano proprio quelle di una bambina di dodici anni che non abbia ancora forme donnesche. L’età della madre si vedeva in certe smagliature macerate della pelle e nel colore : una bianchezza gelida, nervosa, maculata di misteriose chiazze quali bluastre e quali livide. « Botte », egli pensò, « o morsi di Alberi ». Ma sotto il ginocchio, le gambe apparivano perfette, con un piccolissimo piede dalle dita raccolte. Marcello avrebbe preferito non mostrare a sua madre il proprio malumore; ma anche questa volta non seppe trattenersi: « Ti ho pur detto tante volte di non ricevermi così, mezza nuda », disse con dispetto, senza guardarla. Ella rispose, insofferente ma senza rancore : « Uh che figlio austero mi ritrovo», tirandosi sul corpo un lembo della coperta. La voce era rauca e anche questo dispiaceva a Marcello. Ricordava, durante l’infanzia, di averla udita dolce e limpida come un canto: quella raucedine era un effetto dell’alcole e degli strapazzi.
Egli disse dopo un momento : « Allora oggi andiamo alla clinica ».
« Andiamoci pure », disse la madre tirandosi su e cercando qualche cosa dietro la spalliera del letto, « sebbene io mi senta tanto male e a lui, poveretto, la nostra visita non faccia assolutamente né caldo né freddo ».
« È pur sempre tuo marito e mio padre », disse Marcello prendendosi la testa fra le mani e guardando in basso.
« Si, certamente lo è », ella disse. Adesso aveva trovato la peretta della luce e la premette. Sul comodino si illuminò fiocamente una lampada che, come parve a Marcello, era involtata in una camicia femminile. « Sebbene », ella continuò levandosi dal letto e mettendo i piedi in terra, « ti dico la verità, qualche volta mi augurerei che morisse... tanto lui non se ne accorgerebbe neppure... e io non spenderei più i soldi per la clinica... ne ho cosi pochi... pensa », soggiunse in tono improvvisamente lamentoso, «pensa che dovrò forse smettere l’automobile».
« Beh, che male c’è ? »
« C’è molto di male », ella disse con un risentimento e un’impudenza puerili, « cosi, con la macchina, ho un pretesto per tenere Alberi e per vederlo quando mi pare... dopo, questo pretesto non l’avrò più ».
« Mamma, non parlarmi dei tuoi amanti », disse Marcello con calma, ficcando le unghie di una mano nelle palme dell’altra.
« I miei amanti... è il solo che abbia... se tu mi parli di quella gallina della tua fidanzata, ho ben io il diritto di parlare di lui, povero caro, che è tanto più simpatico e più intelligente di lei ».
Stranamente, questi insulti alla fidanzata da parte della madre che non poteva soffrire Giulia, non offendevano Marcello. « Si, è vero », pensò, « può anche darsi che sembri una gallina... ma mi piace che sia cosi». Disse in tono raddolcito: «Allora, vuoi vestirti?... Se vogliamo andare alla clinica, è tempo di muoversi ».
«Ma si, subito». Leggera, quasi un’ombra, ella attraversò in punta di piedi la camera, raccolse al passaggio, dalla seggiola, la vestaglia rosa e, pur gettandosela sulle spalle, apri l’uscio del bagno e scomparve.
Subito, appena la madre fu uscita, Marcello andò alla finestra e la spalancò. L’aria, di fuori, era calda e immobile, pur tuttavia gli sembrò di provare un sollievo acuto, come se invece che sul giardino afoso si fosse affacciato su un ghiacciaio. Insieme, gli parve quasi di avvertire alle spalle il movimento dell’aria dentro, pesante di profumi disfatti e di puzzo animale, che pian piano, si spostava, usciva lentamente dalla finestra, si dissolveva nello spazio, simile ad un enorme vomito aereo traboccante fuori dalle fauci della casa ammorbata. Rimase un lungo momento, gli occhi rivolti in basso, al fitto fogliame del glicine che circondava con i suoi rami la finestra, poi si voltò verso la stanza. Di nuovo il disordine e la trasandatezza lo colpirono, ispirandogli, però, questa volta, più tristezza che ripugnanza. Gli parve, ad un tratto, di ricordarsi sua madre, come era stata in gioventù, e provò un vivo, accorato sentimento di costernata ribellione contro la decadenza e la corruzione che la avevano cambiata dalla fanciulla che era stata alla donna che era. Qualche cosa di incomprensibile, di irreparabile era certamente all’origine di questa trasformazione; non l’età, né le passioni, né la rovina finanziaria, né la scarsa intelligenza, né alcun altro motivo preciso; qualche cosa che egli sentiva senza spiegarlo e che gli pareva far tutt’uno con quella vita, anzi averne costituito un tempo il pregio maggiore per poi diventarne più tardi, per misteriosa trasmutazione, il vizio mortale. Si distaccò dalla finestra e si avvicinò al cassettone, sul quale, tra le molte cianfrusaglie, c’era una fotografia di sua madre giovane. Guardando a quel viso fine, a quegli occhi innocenti, a quella bocca vezzosa, si domandò con orrore perché ella non fosse più come era stata allora. Riaffiorava in questa domanda, il suo ribrezzo per ogni forma di corruzione e di decadenza, ma reso più insopportabile da un sentimento acre di rimorso e di dolore filiale: forse era colpa sua che la madre si fosse ridotta a quel modo, forse se l’avesse amata di più o in modo diverso, ella non sarebbe caduta in cosi squallido e irrimediabile abbandono. Si accorse che gli occhi, a questo pensiero, gli si erano riempiti di lagrime, cosi che il ritratto gli appariva adesso tutto annebbiato, e scosse con forza il capo. Nello stesso momento l’uscio del bagno si apri e la madre, in vestaglia, apparve sulla soglia. Subito si parò gli occhi con un braccio, esclamando: «Chiudi... chiudi quella finestra... come puoi sopportare questa luce».
 
Alberto Moravia
Il conformista

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