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Il conformista 137


Alberto Moravia - Il conformista
PARTE PRIMA
CAPITOLO TERZO

L’idea della confessione preoccupava Marcello. Egli non era religioso nel senso di praticare formalmente i riti; né era ben sicuro di esserlo nell’altro senso di una inclinazione naturale alla religiosità; tuttavia, avrebbe considerato volentieri la confessione richiesta da Don Lattanzi come uno dei tanti atti convenzionali cui si sobbarcava per ancorarsi definitivamente nella normalità, se tale confessione non avesse comportato la rivelazione di due cose che per diversi motivi considerava, appunto, inconfessabili: la tragedia della sua infanzia, e la missione a Parigi. In maniera oscura egli intuiva che un nesso sottile univa queste due cose; anche se, poi, gli sarebbe stato difficile dire con chiarezza in che cosa consistesse questo nesso. D’altra parte si rendeva conto che tra le tante norme egli non aveva scelto quella cristiana che proibisce di uccidere, bensì un’altra, tutta diversa, politica e recente, cui il sangue non ripugnava. Al cristianesimo, insomma, quale era rappresentato dalla Chiesa con le sue centinaia di papi, le sue innumerevoli chiese, i suoi santi e i suoi martiri, egli non riconosceva il potere di renderlo a quella comunione con gli uomini che il fatto di Lino gli aveva sbarrato; quel potere, invece, che, implicitamente, attribuiva al corpulento ministro dalla bocca tinta di rossetto, al suo cinico segretario, ai suoi superiori del Servizio Segreto. Tutto questo, più che pensarlo, Marcello lo intuiva oscuramente; e se ne accresceva la sua malinconia, come di chi non veda che una sola via d’uscita, tutte le altre essendo chiuse; e questa via non gli piaccia.
Ma bisognava decidersi, pensò salendo sul tram che portava a Santa Maria Maggiore, bisognava scegliere: o fare una confessione completa, secondo le norme della Chiesa, oppure limitarsi ad una confessione parziale, puramente formale, per far piacere a Giulia. Sebbene non fosse né praticante né credente, inclinava per la prima alternativa; quasi sperando, attraverso la confessione, se non di cambiare il proprio destino, per lo meno di confermarsi una volta di più in esso. Mentre il tram correva, dibattè il problema con la solita serietà un po’ smorta e pedante. Per quanto riguardava Lino, si sentiva più o meno tranquillo: egli avrebbe saputo raccontare il fatto come era realmente avvenuto e il prete, dopo il solito esame e le solite raccomandazioni, non avrebbe potuto non assolverlo. Ma per la missione che, come sapeva, comportava la frode, il tradimento e, in ultima istanza, forse anche la morte di un uomo, si rendeva conto che tutto cambiava. Il punto, per la missione non era tanto di ottenerne l’approvazione, quanto addirittura di parlarne. Egli non era affatto sicuro di esserne capace; ché, appunto, parlarne, avrebbe voluto dire abbandonare una norma per un’altra; sottoporre al giudizio cristiano qualche cosa che fino ad oggi egli aveva considerato del tutto indipendente; mancare ad un implicito impegno di silenzio e di segretezza; insomma, mettere in forse tutto il faticato edificio del suo inserimento nella normalità. Ma valeva la pena di tentare la prova egualmente, come pensò, se non altro per convincersi, una volta di più, attraverso un definitivo collaudo, della solidità di quest’edificio.
Si accorse tuttavia di considerare queste alternative senza soverchia emozione, con animo freddo e inerte, quasi di spettatore; come se la scelta, in realtà, egli l’avesse già fatta e tutto quello che doveva avvenire in futuro fosse già scontato in anticipo, non sapeva come né quando. Era cosi poco dilaniato dal dubbio che, entrando nella vasta chiesa, piena di un’ombra, di un silenzio e di una frescura davvero consolanti dopo la luce, il fracasso e il caldo della strada, dimenticò persino la confessione e prese ad aggirarsi per quei pavimenti deserti, da una navata all’altra, proprio come un turista ozioso. Le chiese gli erano sempre piaciute come punti sicuri in un mondo fluttuante, costruzioni non casuali in cui in altri tempi aveva trovato espressione massiccia e splendida ciò che egli cercava: un ordine, una norma, una regola. Gli avveniva, anzi, assai spesso di entrare nelle chiese, cosi numerose a Roma, e sedersi ad un banco, senza pregare, in contemplazione di qualche cosa che, come pensava, avrebbe fatto al caso suo soltanto che le condizioni fossero state diverse. Ciò che lo seduceva nelle chiese non erano le soluzioni che esse proponevano e che non gli era possibile accettare, quanto un risultato che non poteva non apprezzare e ammirare. Gli piacevano tutte; ma quanto più erano imponenti, magnifiche e, insomma, profane, tanto più gli piacevano: in queste chiese in cui la religione era evaporata in una mondanità maestosa e ordinata gli pareva di ravvisare quasi il punto di passaggio da una credenza religiosa ingenua ad una società ormai adulta che, tuttavia, senza quella credenza lontana non avrebbe potuto esistere.
A quell’ora la chiesa era deserta. Marcello andò fin sotto l’altare e poi, avvicinandosi ad una delle colonne della navata di destra, guardò d’infilata il pavimento, cercando di abolire la propria statura e di metter l’occhio al livello del suolo: come era vasto il pavimento, veduto cosi in prospettiva, come poteva vederlo una formica: quasi una pianura e dava una specie di vertigine. Poi alzò gli occhi e lo sguardo, seguendo il debole luccichio che la scarsa luce accendeva sulla superficie convessa degli enormi fusti di marmo, rimbalzò di colonna in colonna fino al portale d’ingresso. In quel momento qualcuno entrava, sollevando il materasso, in uno spicchio di luce cruda e bianca : come era piccola, laggiù in fondo alla chiesa, la figura del fedele che si affacciava sulla soglia. Marcello andò dietro l’altare e guardò ai mosaici dell’abside. La figura del Cristo, tra i quattro santi, fermò la sua attenzione: chi l’aveva rappresentato a quel modo, pensò, non nutriva certo alcun dubbio su quello che fosse anormale e quello che fosse normale. Egli abbassò il capo dirigendosi lentamente verso il confessionale, nella navata di destra. Adesso pensava che era inutile rimpiangere di non esser nato in altri tempi e in altre condizioni : egli era quello che era appunto perché i suoi tempi e le sue condizioni non erano più le stesse che avevano consentito l’erezione di quella chiesa; e nella consapevolezza di questa realtà, stava tutto il suo impegna
Si avvicinò al confessionale, enorme, in proporzione con la basilica, tutto di scuro legno scolpito, e fece a tempo di intravvedere il prete, che vi sedeva, chiudere la tendina nascondendosi; ma non ne vide il viso. Con un gesto abituale, prima di inginocchiarsi, tirò su i pantaloni sul ginocchio affinché non si sgualcissero; quindi disse a bassa voce: « Desidererei confessarmi ».
Dall’altra parte, la voce del prete, in tono sommesso ma franco e sbrigativo, rispose che poteva farlo senza più. Era una voce cadenzata, grossa, da basso profondo, di uomo maturo, con un forte accento meridionale. Suo malgrado, Marcello evocò una figura fratesca dalla faccia nera di barba, dai folti sopraccigli, dal naso massiccio, dalle orecchie e dalle narici piene di peli. Un uomo, pensò, fatto della stessa materia pesante e massiccia del confessionale, senza sospetti e senza sottigliezze. Il prete, come aveva preveduto, gli domandò da quanto tempo non si fosse confessato e lui rispose che non si era mai confessato salvo nell’infanzia e che adesso lo faceva perché doveva sposarsi. La voce del prete, dopo un momento di silenzio, disse in tono alquanto indifferente, al di là della grata : « Hai fatto malissimo figlio mio... e quanti anni hai? »
« Trenta », disse Marcello.
« Hai vissuto trenta anni nel peccato », disse il prete con il tono di un contabile che annunzia il passivo di un bilancio. Riprese dopo un momento: « Hai vissuto trenta anni come una bestiola e non come una creatura umana».
Marcello si morse le labbra. Adesso si accorgeva che l'autorità del confessore, espressa in quella maniera cosi sbrigativa e familiare di giudicare il suo caso ancor prima di conoscerlo nei particolari, gli riusciva inaccettabile e irritante. Non che il prete, probabilmente un brav’uomo che assolveva con scrupolo il suo ufficio, gli dispiacesse, né il luogo né il rito; ma al contrario del ministero dove tutto gli era dispiaciuto ma dove l’autorità gli era sembrata ovvia
e incontestabile, qui provava un desiderio istintivo di ribellarsi. Disse, tuttavia, con sforzo : « Ho commesso tutti i peccati... anche i più gravi ».
« Tutti ? »
Egli pensò : adesso dirò che ho ucciso e voglio vedere che effetto mi fa dirlo. Esitò e poi con una spinta lieve riuscì a pronunziare con voce chiara e ferma: « Si tutti, ho anche ucciso».
Il prete esclamò subito con vivacità, ma senza indignazione né sorpresa: «Tu hai ucciso e non hai sentito il bisogno di confessarti».
Marcello pensò che era precisamente quello che il prete doveva dire: niente orrore, niente meraviglia, soltanto uno sdegno di ufficio per non aver confessato a tempo un peccato cosi grave. E ne fu grato al prete, come sarebbe stato grato ad un commissario di polizia che, di fronte a quella stessa confessione, senza perdersi in commenti, si fosse affrettato a dichiararlo in arresto. Tutti, pensò, dovevano recitare la loro parte e soltanto in questo modo il mondo poteva durare. Intanto, però, si accorgeva una volta di più di non provare, rivelando la propria tragedia, alcun particolare sentimento; e si meravigliò di questa indifferenza cosi in contrasto con il profondo turbamento provato poco prima quando la madre di Giulia aveva annunziato di aver ricevuto la lettera anonima. Disse con voce calma: «Ho ucciso quando avevo tredici anni... e per difendermi... e senza quasi volerlo... ».
« Racconta come è stato ».
Egli modificò un poco la propria posizione sui ginocchi indolenziti e quindi incominciò: «Una mattina, all’uscita del ginnasio, un uomo mi avvicinò con un pretesto... io allora desideravo molto possedere una rivoltella... non un balocco ma una rivoltella vera... lui mi promise che mi avrebbe dato la rivoltella e con questa promessa riuscì a farmi salire sulla sua macchina... era l’autista di una straniera e aveva la macchina a sua disposizione tutto il giorno perché la padrona era in viaggio all’estero... io allora ero del tutto ignaro e quando mi fece certe proposte, non capii neppure di che cosa si trattava».
«Quali proposte?»
« Proposte d’amore », disse Marcello sobriamente; «io non sapevo che cosa fosse l’amore, né quello normale né quello anormale... salii, dunque, e lui mi portò nella villa della sua padrona».
« E li cosa avvenne? »
« Nulla o quasi nulla... lui prima tentò qualche cosa, poi si pentì e mi fece promettere che da allora non gli avrei più dato retta, anche se lui mi avesse di nuovo invitato a salire in macchina».
« Cosa vuoi dire con “quasi nulla”?... Ti baciò? »
« No », disse Marcello un po’ sorpreso, « mi prese soltanto per la vita, un momento, in un corridoio ».
« Vai avanti ».
« Egli aveva preveduto, però, che non sarebbe stato capace di dimenticarmi... e infatti il giorno dopo mi aspettava di nuovo all’uscita del ginnasio... anche questa volta mi disse che mi avrebbe dato la rivoltella e io, che desideravo molto quest’oggetto, dapprima mi feci un poco pregare e poi accettai di salire ».
« E dove andaste ? »
« Come l’altra volta, alla villa, in camera sua... ».
« E questa volta, come si comportò? »
« Era tutto cambiato », disse Marcello, « sembrava fuori di sé... mi disse che non mi avrebbe dato la rivoltella e che, con le buone o con le cattive, io dovevo fare quello che voleva lui... mentre diceva queste parole teneva la rivoltella in mano... poi mi prese per un braccio e mi gettò sul letto facendomi battere la testa contro il muro... la rivoltella intanto era caduta sul letto e lui si era inginocchiato contro di me abbracciandomi le gambe... io presi la rivoltella, mi alzai dal letto e feci qualche passo indietro e lui allora gridò aprendo le braccia: “ammazzami, ammazzami come un cane... ” allora io, quasi ubbidendogli, sparai e lui cadde sul letto... poi io scappai e non seppi più nulla... questo avvenne molti anni fa... in questi giorni sono andato a vedere i giornali dell’epoca e ho scoperto che quell’uomo era morto la sera stessa, all’ospedale ».
Marcello aveva fatto il racconto senza fretta, scegliendo con cura le parole e pronunziandole con precisione. Mentre parlava si accorgeva di non provar nulla, come sempre; nulla all’infuori di quel senso di tristezza gelido e distante che gli era solito qualunque cosa facesse o dicesse. Il prete domandò subito, senza commentare in alcun modo il racconto: « Sei sicuro di aver detto tutta la verità? »
« Si, certo », rispose Marcello sorpreso.
« Tu sai », prosegui il prete con improvvisa concitazione, « che tacendo o deformando la verità o una parte di essa, la confessione non è valida e inoltre commetti un grave sacrilegio... cosa avvenne realmente tra te e quell’uomo, la seconda volta? »
« Ma... quello che ho detto».
« Non ci fu tra voi un rapporto carnale?... Non ti usò violenza?»
Cosi, non potè fare a meno di pensare Marcello, l’uccisione era meno importante del peccato di sodomia. Egli confermò: « Non ci fu che quello che ho detto ».
« Si direbbe », continuò il prete inflessibile, « che tu abbia ucciso l’uomo per vendicarti di qualche cosa che ti aveva fatto... ».
« Non mi aveva fatto assolutamente nulla ».
Ci fu un breve silenzio pieno, come gli parve, di una maldissimulata incredulità. « E poi », domandò ad un tratto il prete in maniera affatto inaspettata, « hai mai più avuto rapporti con uomini? »
« No... la mia vita sessuale è stata ed è tuttora perfettamente normale ».
« Che cosa intendi per vita sessuale normale ? »
« Sono un uomo, per questo aspetto, simile a tutti gli altri... ho conosciuto la donna per la prima volta in una casa di tolleranza, a diciassette anni... e poi non ho mai avuto rapporti che con donne ».
« E questa la chiami una vita sessuale normale ? »
« Si, perché ? »
« Ma anche questo è anormale », disse il prete vittoriosamente, « anche questo è peccato... non te l’hanno mai detto, povero figliolo?... Normale è sposarsi e aver rapporti con la propria moglie al fine di mettere al mondo la prole ».
« È quello che sto per fare», disse Marcello.
« Bravo, ma non basta... tu non puoi accostarti all’altare con le mani sporche di sangue ».
« Finalmente », non potè fare a meno di pensare Marcello che per un momento aveva quasi creduto che il prete si fosse dimenticato dell’oggetto principale della confessione. Disse più umilmente che potè : « Ditemi voi quello che debbo fare ».
« Devi pentirti », disse il prete, « soltanto con un pentimento sincero e profondo puoi espiare il male che hai fatto... ».
« Io mi sono pentito », disse Marcello riflessivamente, « se pentirsi vuol dire desiderare vivamente di non aver mai fatto certe cose, di certo mi son pentito ». Avrebbe voluto soggiungere: « Ma questo pentimento non è bastato... non poteva bastare », ma si trattenne. Il prete disse in fretta : « Il mio dovere è di avvertirti che se quello che tu dici adesso non è vero, la mia assoluzione non ha alcun valore... sai che cosa ti aspetta se tu m’inganni? »
« Che cosa ? »
« La dannazione ».
Il prete pronunziò questa parola con una particolare soddisfazione. Marcello ricercò nella sua fantasia che cosa vi richiamasse la parola e non trovò nulla: neppure la vecchia immagine delle fiamme dell’inferno. Ma al tempo stesso avverti che la parola significava più di quanto il prete avesse inteso metterci. E rabbrividì pensosamente, quasi avesse capito che quella dannazione, pentimento o no, c’era e che non era in potere del prete di liberarlo. « Io mi sono veramente pentito », ripetè con amarezza.
« E non hai altro da dirmi ? »
Marcello prima di rispondere, tacque un istante. Adesso si rendeva conto che era giunto il momento di parlare della sua missione la quale, come sapeva, comportava azioni condannabili, anzi già in precedenza condannate dalla norma cristiana. Aveva preveduto questo momento e con ragione aveva attribuito la massima importanza alla propria capacità di rivelare la missione. Allora, con un senso tranquillo e triste di scoperta prevista, si accorse, poiché quasi muoveva la bocca per parlare, di provare un’insormontabile ripugnanza. Non era ribrezzo morale, né vergogna né, insomma, alcun sentimento di colpa; bensì qualche cosa di assai diverso che con la colpa nulla aveva a che fare. Come di un’inibizione assoluta, dettata da una complicità e da una fedeltà profonde. Egli non doveva parlare della missione, ecco tutto : questo glielo intimava con autorità quella stessa coscienza che era rimasta muta e inerte allorché aveva annunziato al prete: io ho ucciso. Non del tutto convinto, cercò una volta di più di parlare, ma senti di nuovo, con lo stesso automatismo di una serratura che scatti se si gira la chiave, quella ripugnanza fermargli la lingua, impedirgli la parola. Cosi, di nuovo e con tanta maggiore evidenza, gli era confermata la forza dell'autorità rappresentata, laggiù al ministero, dallo spregevole ministro e dal suo non meno spregevole segretario. Autorità misteriosa, come tutte le autorità, la quale, a quanto pareva, affondava le radici nel più profondo dell’animo suo, mentre la Chiesa, apparentemente tanto più autorevole, non raggiungeva che la superficie. Disse allora, mentendo per la prima volta : « Debbo rivelare alla mia fidanzata, prima che ci sposiamo, quanto vi ho raccontato oggi ? »
« Non le hai mai detto nulla? »
« No, sarebbe la prima volta».
« Non vedo la necessità », disse il prete, « la turberesti inutilmente... e metteresti in pericolo la pace della tua famiglia ».
« Avete ragione », disse Marcello.
Segui un nuovo silenzio. Poi il prete disse, in tono conclusivo, come muovendo l’ultima e definitiva domanda: «E dimmi figliolo... hai mai fatto parte o fai parte ora di qualche gruppo o setta sovversiva? » Marcello, che non si era aspettato questa domanda, ammutolì un momento, sconcertato. Evidentemente, come pensò, il prete muoveva la domanda per ordine superiore, al fine di accertarsi delle tendenze politiche dei suoi fedeli. Tuttavia era significativo che la muovesse: a lui che si accostava ai riti formalmente, come a cerimonie esteriori di una società di cui desiderava far parte, il prete chiedeva appunto di non mettersi contro questa società. Piuttosto questo che non mettersi contro se stesso. Avrebbe voluto rispondere : « No, faccio parte di un gruppo che dà la caccia ai sovversivi ». Ma represse questa maliziosa tentazione e disse semplicemente : « Per la verità, sono funzionario dello Stato ».
Questa risposta dovette piacere al prete, perché, dopo una breve pausa, riprese pacatamente : « Ora devi promettermi che pregherai... però non devi pregare qualche giorno, o qualche mese... o qualche anno... ma tutta la vita... pregherai per l’anima tua e per quella di quell’uomo... e farai pregare tua moglie e i tuoi figli... se ne avrai... soltanto la preghiera può attirare l’attenzione di Dio su di te e ottenere per te la Sua misericordia... hai capito?... E adesso raccogliti e prega con me ».
Marcello abbassò meccanicamente il viso e udì, dall’altra parte della grata, la voce sommessa e frettolosa del prete che recitava una preghiera in latino. Quindi in tono più alto, il prete, sempre in latino, pronunziò la formula dell’assoluzione; e Marcello si levò dal confessionale.
Ma come passava di fronte al confessionale, la tendina si apri e il prete gli fece cenno di fermarsi. Egli si meravigliò vedendolo in tutto simile a come l’aveva immaginato: un po’ grasso, calvo, con una grande fronte rotonda, le sopracciglia folte, gli occhi tondi, marroni, serii ma non intelligenti, la bocca umida. Un parroco di campagna, pensò, un frate cercatore. Il prete, intanto, gli porgeva in silenzio un libretto smilzo con una immagine a colori sulla copertina: la vita di Santo Ignazio da Loyola, ad uso della gioventù cattolica. « Grazie », disse Marcello esaminando il libretto. Il prete fece un altro cenno come per dire che non c’era di che e richiuse la tendina. Marcello si avviò verso il portale d’ingresso.
Ma sul punto di uscire, abbracciò con lo sguardo la chiesa intera con le sue due file di colonne, il suo soffitto a cassettoni, il suo pavimento deserto, il suo altare e gli sembrò di dare addio per sempre all’immagine antica e sopravvissuta di un mondo come lo desiderava e sapeva che non era più possibile che fosse. Una specie di miraggio alla rovescia, ritto in un passato irrevocabile, dal quale i suoi passi lo allontanavano sempre più. Quindi sollevò il materasso e usci di fuori, nella luce forte del cielo sereno, in contro alla piazza ingombra della ferraglia clamorosa dei tram e allo sfondo volgare dei palazzi anonimi e delle botteghe commerciali.
 
Alberto Moravia
Il conformista

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