Italiano
index_italian_m
Gelsomino
Ïåñíè
Treccani
Il conformista 124
Alberto Moravia - Il conformista PARTE PRIMA / CAPITOLO SECONDO (cont.) |
« Una lettera anonima? » gridò Giulia precipitandosi dietro la
madre. « Si, una lettera anonima... che schifo, però, la gente ». Marcello entrò a sua volta nella sala da pranzo, cercando di nascondersi il viso con il fazzoletto. La notizia della lettera anonima l’aveva sconvolto e gli premeva di non darlo a vedere alle due donne. Udire la madre di Giulia esclamare : « Una lettera anonima », e subito pensare: «Qualcuno ha scritto del fatto di Lino », era stato per lui una sola cosa. A questo pensiero il sangue gli era fuggito dal viso, il respiro gli era mancato, un senso di sbigottimento, di vergogna e di paura, inspiegabile, inaspettato, fulmineo, mai provato se non nei primi anni dell’adolescenza quando il ricordo di Lino era ancora fresco, l’aveva assalito. Era stato più forte di lui; e tutti i suoi poteri di controllo erano stati travolti in un attimo come è travolto da una moltitudine presa dal panico, il sottile cordone di poliziotti che dovrebbe contenerla. Si morse a sangue le labbra, mentre si avvicinava alla tavola: si era dunque sbagliato, in biblioteca, quando ricercando la notizia del delitto, si era convinto che l’antica ferita fosse del tutto rimarginata: la ferita non soltanto non era rimarginata ma era anche molto più profonda di quanto avesse sospettato. Per fortuna il suo posto, a tavola, era controluce, con le spalle alla finestra. In silenzio, rigidamente, sedette a capotavola, avendo Giulia a destra e la signora Ginami a sinistra. La lettera anonima adesso stava sulla tovaglia, presso il piatto della madre di Giulia. Intanto era entrata la serva bambina, reggendo con le due mani un vassoio colmo di pasta asciutta. Marcello affondò il forchettone nella matassa rossa e unta, sollevò una piccola quantità di spaghetti e la depose sul proprio piatto. Subito le due donne protestarono: «Troppo poco... vuoi digiunare... prendine ancora». La signora Ginami soggiunse : « Lei lavora, deve mangiare » ; Giulia, addirittura, impulsivamente, inforcò dal vassoio altri spaghetti e li mise sul piatto del fidanzato. « Non ho fame », disse Marcello con una voce che gli parve assurdamente spenta e angosciata. « L’appetito vien mangiando », rispose Giulia servendosi, con enfasi. La servetta usci portandosi via il vassoio quasi vuoto; e la madre disse subito: « Non volevo mostrarla... pensavo che non ne valesse la pena... però in che mondo viviamo». Marcello non disse nulla, chinò il viso sul piatto e si riempi la bocca di spaghetti. Tuttora temeva che la lettera riguardasse il fatto di Lino, sebbene la mente gli dimostrasse che questo era impossibile. Era un timore incoercibile, più forte di qualsiasi riflessione. Giulia domandò: « Ma, insomma, si può sapere che cosa c’è scritto ? » La madre rispose : « Prima di tutto, però, voglio dire a Marcello che per me, anche se avessero scritto in questa lettera cose mille volte peggiori, lui deve lo stesso esser sicuro che il mio affetto rimane inalterato... Marcello, lei per me è un figlio, e lei sa che l’amore di una madre per un figlio è più forte di qualsiasi insinuazione ». Gli occhi le si empirono ad un tratto di lagrime; ella ripete: «Proprio un figlio»; quindi, afferrata la mano di Marcello, se la portò al cuore dicendo: «Caro Marcello». Non sapendo che fare né che dire, Marcello restò fermo e silenzioso, aspettando che l’effusione fosse finita. La signora Ginami lo guardò con occhi inteneriti e soggiunse : « Lei deve perdonare ad una vecchia donna come me, Marcello ». «Mamma, che assurdità, non sei vecchia», disse Giulia troppo avvezza a queste commozioni materne per darci peso o meravigliarsene. « Si, sono vecchia, non mi restano che pochi anni da vivere», rispose la signora Delia. Questo della morte imminente, era uno dei suoi argomenti preferiti, forse perché, oltre a commuovere lei stessa, ella pensava che avesse il potere di commuovere anche gli altri. « Morirò presto e perciò sono tanto, tanto contenta di lasciare mia figlia ad un uomo cosi buono come lei, Marcello». Marcello, che la mano dalla signora Delia premuta contro il cuore costringeva ad una posizione scomoda al di sopra degli spaghetti, non potè reprimere un leggerissimo moto di impazienza che non sfuggi alla vecchia donna; la quale, però, lo scambiò per una protesta contro gli elogi eccessivi. « Si », ella confermò, «lei è buono... tanto buono... qualche volta lo dico a Giulia: sei fortunata di aver trovato un giovane cosi buono... so bene, Marcello, che la bontà oggi non è più di moda... ma lo lasci dire ad una persona che ha molti anni più di lei: non c’è che la bontà al mondo... e lei, per fortuna, è tanto, tanto, tanto buono». Marcello aggrottò le sopracciglia e non disse nulla. « Ma lascialo mangiare, poveretto », esclamò Giulia, « non lo vedi che gli sporchi la manica di sugo? » La signora Ginami lasciò la mano di Marcello e prendendo la lettera disse : « È una lettera scritta a macchina... con il timbro di Roma... non mi meraviglierei, Marcello, se l’avesse scritta uno dei suoi colleghi di ufficio». « Ma mamma, si può sapere una buona volta che cosa c’è scritto?» «Eccola», disse la madre porgendo la lettera alla figlia, « leggila... ma non leggerla ad alta voce... sono cose brutte che non mi piace sentire... poi, quando l’hai letta, dalla a Marcello». Non senza ansietà, Marcello vide la fidanzata leggere la lettera. Poi, torcendo la bocca in segno di disprezzo, Giulia pronunziò : « Che schifo » e gliela porse. La lettera, scritta su carta velina da macchina, non conteneva che poche righe dattilografate con un nastro dall’inchiostro sbiadito. « Signora, permettendo che vostra figlia sposi il dottor Clerici, voi commettete peggio che un errore, commettete un delitto. Il padre del dottor Clerici è ricoverato da anni in manicomio perché affetto da pazzia di origine luetica, e, come sapete, questa malattia è ereditaria. Siete ancora in tempo: impedite il matrimonio. Un amico ». « Cosi, questo è tutto», pensò Marcello quasi deluso. Gli parve di capire che la sua delusione era maggiore del sollievo: quasi avesse sperato che qualcun altro apprendesse la tragedia della sua infanzia e lo liberasse in parte del fardello di tale conoscenza. Lo colpiva tuttavia una frase : « Come sapete questa malattia è ereditaria». Sapeva benissimo che l’origine della pazzia paterna non era luetica e che non c’era alcun pericolo che egli un giorno diventasse pazzo come suo padre. E pur tuttavia la frase, nella sua malignità minacciosa, gli parve che alludesse ad altra pazzia che avrebbe, appunto, potuto essere davvero ereditaria. Quest’idea, subito scacciata, non fece che sfiorargli la mente. Poi restituì la lettera alla madre di Giulia dicendo tranquillamente : « Non c’è nulla di vero». « Ma lo so che non c’è nulla di vero », rispose la buona donna quasi offesa. Soggiunse dopo un momento : « Io so soltanto che mia figlia sposa un uomo buono, intelligente, onesto, serio... e un bel ragazzo», concluse con una specie di civetteria. « Soprattutto un bel ragazzo: lo puoi dir forte», confermò Giulia, « ed è per questo che chi ha scritto quella lettera insinua che è tarato... vedendolo cosi bello, gli pare impossibile che non ci abbia il baco... cretini ». « Chissà cosa direbbero », non potè fare a meno di pensare Marcello, « se sapessero che a tredici anni ho quasi avuto dei rapporti amorosi con un uomo e che l’ho ucciso ». Si accorse che, adesso, passata la paura destata dalla lettera, gli era tornata la solita apatia malinconica e speculativa. «Probabilmente», pensò ancora guardando alla fidanzata e alla signora Ginami, « non farebbe loro né caldo né freddo... la gente normale ha la pelle dura»; e capi che invidiava alle due donne, una volta di più, la loro « pelle dura ». Disse ad un tratto: «Debbo proprio andarci oggi a visitare mio padre». « Ci vai con tua madre ? » « Si ». La pasta asciutta era finita, la serva bambina rientrò, cambiò i piatti e depose sulla tavola un vassoio pieno di carne e di verdura. La madre disse, riprendendo la lettera ed esaminandola, appena la cameriera fu uscita : « Vorrei proprio sapere chi ha scritto questa lettera». « Mamma », disse ad un tratto Giulia con una serietà improvvisa ed eccessiva, « dammi un po’ quella lettera ». Ella prese la busta, la guardò con attenzione, poi tolse il foglio di velina, lo scrutò, le sopracciglia aggrottate e finalmente esclamò, con voce alta e indignata : « So benissimo chi ha scritto questa lettera... non possono esserci dubbi... ah, che infame ». « Ma chi è? » «Un disgraziato», rispose Giulia abbassando gli occhi alla tavola. Marcello non disse nulla. Giulia lavorava da segretaria nello studio di un avvocato, probabilmente, come pensò, la lettera era stata scritta da uno dei numerosi assistenti. La madre disse : « Qualche invidioso certo... Marcello ha una posizione a trentanni che molti uomini fatti vorrebbero avere». Pro forma, sebbene non fosse incuriosito, Marcello domandò alla fidanzata: «Se sai il nome di chi ha scritto la lettera, perché non lo dici? » « Non posso », ella rispose ormai più riflessiva che indignata, « ma te l’ho detto : è un disgraziato ». Rese la lettera alla madre e si servi dal vassoio che la cameriera le porgeva. Per un momento nessuno dei tre parlò. Poi la madre riprese in tono di sincera incredulità : « Eppure non posso crederci che ci sia qualcuno cosi cattivo da poter scrivere una lettera simile contro un uomo come Marcello». « Mica tutti gli vogliono bene come noi due, mamma», disse Giulia. « Ma chi », domandò ad un tratto la madre con enfasi, « chi non potrebbe volergli bene al nostro Marcello ? » « Lo sai che dice di te la mamma? » domandò Giulia che adesso pareva essere tornata alla solita allegria e volubilità, « che non sei un uomo ma un angelo... cosi che uno di questi giorni, magari, invece di entrare in casa nostra per la porta... entrerai per la finestra, volando». Soffocò una risata e soggiunse : « Farà piacere al prete, quando vai a confessarti, di sapere che sei un angelo... mica succede tutti i giorni di ascoltare la confessione di un angelo». «Ecco che mi prendi in giro, al solito», disse la madre, « ma io non esagero affatto... Marcello, per me, è un angelo ». Guardò Marcello con intensa, zuccherosa tenerezza, e tosto gli occhi le si empirono visibilmente di lagrime. Soggiunse dopo un momento: « Ho conosciuto in vita mia soltanto un uomo che fosse buono come Marcello... ed era tuo padre, Giulia ». Giulia questa volta si fece seria, come si addiceva all’argomento e abbassò gli occhi sul piatto. Intanto il viso della madre subiva una graduale trasformazione: dagli occhi le lagrime traboccavano copiose mentre una smorfia patetica le sconvolgeva i tratti molli e gonfi tra i cernecchi dei capelli disfatti, cosi che colori e lineamenti parevano confondersi e cancellarsi come visti attraverso un vetro inondato di acqua abbondante. Ella cercò in fretta il fazzoletto, e, portandolo agli occhi, balbettò: « Un uomo veramente buono... un vero angelo... e stavamo cosi bene insieme, noi tre... ed ora è morto e non ce più... Marcello mi ricorda tuo padre, per la bontà, ed è per questo che gli voglio tanto bene... quando penso che quell’uomo cosi buono è morto, mi si spezza il cuore ». Le ultime parole si persero nel fazzoletto. Giulia disse tranquillamente: «Mangia, mamma». « No, no, non ho fame », disse la madre singhiozzando. « scusatemi piuttosto voi due... siete felici e la felicità non deve essere turbata dalla tristezza di una vecchia donna». Si alzò bruscamente, andò alla porta ed usci. « Pensa, sono già sei anni », disse Giulia guardando alla porta, « ed è come se fosse sempre il primo giorno ». Marcello non disse nulla. Aveva acceso una sigaretta e fumava a testa bassa. Giulia stese una mano e gli prese la sua. « Che pensi ? » domandò quasi supplichevolmente. Giulia gli domandava spesso che cosa pensasse, incuriosita e, talvolta, anche allarmata dall’espressione seria e chiusa del viso di lui. Marcello rispose: « Pensavo a tua madre... i suoi elogi mi imbarazzano... non mi conosce abbastanza per dire che sono buono ». Giulia gli strinse la mano e rispose : « Mica lo fa per complimento... anche quando non ci sei, me lo dice spesso: come è buono Marcello». « Ma come fa a saperlo ? » «Sono cose che si vedono». Giulia si alzò e venne a mettersi in piedi accanto a lui, premendo il fianco rotondo contro la sua spalla e passandogli una mano tra i capelli. « Perché ? Non vorresti che si pensasse che tu sei buono ? » «Non dico questo », rispose Marcello, « dico che, forse, non è vero». Ella scosse la testa : « Il tuo difetto è di esser troppo modesto... guarda: io non sono come mamma che vorrebbe che tutti fossero buoni... per me ci sono i buoni e i cattivi... ebbene, tu sei per me una delle migliori persone che abbia incontrato in vita mia... e non lo dico perché siamo fidanzati e ti voglio bene... lo dico perché è vero». « Ma in che cosa consiste questa bontà ? » «Te l’ho detto: sono cose che si vedono... perché si dice che una donna è bella?... Perché si vede che è bella... cosi si vede che tu sei buono ». " Sarà », disse Marcello abbassando il capo. La convinzione delle due donne che egli fosse buono, non gli era nuova ma sempre lo sconcertava profondamente. In che cosa consisteva questa bontà? Era poi veramente buono? O non era piuttosto ciò che Giulia e sua madre chiamavano bontà, la sua anormalità, ossia quel suo distacco, quella sua assenza dalla vita comune? Gli uomini normali non erano buoni, pensò ancora, perché la normalità veniva sempre pagata, consapevolmente o no, a caro prezzo, con complicità varie ma tutte negative, di insensibilità, di stupidità, di viltà quando addirittura non di criminalità. Venne tratto da queste riflessioni dalla voce di Giulia che diceva: «A proposito, sai che è arrivato il vestito... voglio mostrartelo... aspettami qui... ». Ella usci impetuosamente e Marcello si levò dalla tavola, andò alla finestra e la spalancò. La finestra dava sulla strada, o meglio, essendo l’appartamento all’ultimo piano, sopra il cornicione del palazzo, assai sporgente, sotto il quale non si vedeva nulla. Ma, al di là del vuoto, si stendeva l’attico del palazzo di fronte: una fila di finestre dalle imposte aperte, attraverso le quali si distinguevano gli interni delle stanze. Era un appartamento molto simile a quello di Giulia: una camera da letto, coi letti ancora disfatti, come pareva; un salotto «buono» coi soliti mobili falsi e scuri; una sala da pranzo alla cui tavola in quel momento si scorgevano sedute tre persone, due uomini e una donna. Queste stanze di fronte erano molto vicine perché la strada non era larga e infatti Marcello poteva vedere distintamente i tre commensali nella sala da pranzo: un uomo tozzo, anziano, con una gran chioma bianca, un uomo più giovane, magro e bruno, e una donna bionda, matura, piuttosto opulenta. Mangiavano tranquillamente, ad una tavola simile a quella a cui poc’anzi si era seduto lui stesso, sotto un lampadario non molto diverso da quello della stanza in cui egli si trovava. Tuttavia, sebbene li vedesse cosi vicini da aver quasi l’illusione di udire i discorsi che facevano, forse per quel senso di abisso che dava la sporgenza del cornicione, gli sembravano oltremodo lontani, addirittura remoti. Non potè fare a meno di pensare che quelle stanze erano la normalità: le vedeva, avrebbe potuto, appena alzando la voce, parlare ai tre commensali, e ciononostante ne stava fuori, in senso non soltanto materiale ma anche morale. Per Giulia, invece, quella lontananza e quell’estraneità non esistevano, erano un fatto puramente fisico e lei stava dentro a quelle stanze, ci era sempre stata e se lui gliele avesse fatte notare, avrebbe fornito con indifferenza tutte le informazioni che possedeva sulla gente che ci abitava; come aveva fatto poco prima per gli invitati al ricevimento di nozze. Indifferenza che denotava più che dimestichezza, addirittura distrazione. In realtà ella non dava alcun nome alla normalità per esserci dentro fino ai capelli, cosi come è da credersi che gli animali, se parlassero, non darebbero alcun nome alla natura di cui fanno parte integralmente e senza residui. Ma lui stava fuori, e la normalità per lui si chiamava normalità appunto perché ne era escluso e la risentiva come tale in contrapposto alla propria anormalità. Per essere simili a Giulia, o bisognava esserci nati, oppure... La porta, alle sue spalle, si apri ed egli si voltò. Giulia gli era davanti, in vestito da sposa, di seta bianca, reggendo con le due mani, per farlo ammirare, il velo abbondante che le ricadeva dal capo. Disse esultante: « Non è bello?... Guarda » e sempre tenendo disteso il velo con le due mani, si girò nello spazio tra la finestra e la tavola, affinché il fidanzato potesse ammirare da ogni parte l’abito nuziale. Era un vestito da sposa, come pensò Marcello, in tutto simile a quello di qualsiasi altra sposa; ma gli piacque che Giulia fosse egualmente contenta di questo vestito cosi comune, allo stesso modo che prima di lei erano state contente milioni e milioni di altre donne. Le forme del corpo di Giulia, esuberanti e rotonde, si stampavano con goffa evidenza nella bianca seta brillante; ella si avvicinò ad un tratto a Marcello e gli disse, lasciando cadere il velo e tendendo il viso. « Ora dammi un bacio... ma senza toccarmi, se no il vestito si gualcisce ». In quel momento Giulia volgeva le spalle alla finestra e Marcello l’aveva di fronte. Come si chinava a sfiorare, con le sue, le labbra di Giulia, vide nella sala da pranzo dell’attico di fronte, il commensale dai capelli bianchi alzarsi e uscire, e subito dopo, gli altri due, il giovane magro e bruno e la donna bionda, levarsi insieme, quasi automaticamente, da tavola e baciarsi in piedi. Questa vista gli fece piacere, dopo tutto egli agiva come quei due dai quali, poco prima, si era sentito diviso da cosi incolmabile distanza. Nello stesso momento Giulia esclamò con impazienza : « Al diavolo il vestito » e, senza staccarsi da Marcello, accostò con una mano le due imposte. Poi, con un impeto forte di tutto il corpo verso il suo, gli gettò le braccia al collo. Si baciarono al buio, impacciati dal velo, e una volta di più, mentre la fidanzata si stringeva e dimenava contro di lui e sospirava e lo baciava, Marcello pensò che ella agiva con innocenza, senza avvertire alcuna contraddizione tra quest’abbraccio e l’abito nuziale: una prova di più che alle persone normali era lecito prendersi la massima libertà con la normalità stessa. Finalmente si separarono, senza fiato, e Giulia gli sussurrò: « Non dobbiamo essere impazienti... ancora qualche giorno e poi potrai baciarmi anche nella strada ». «Debbo andare», egli disse asciugandosi la bocca con il fazzoletto. « Ti accompagno ». Uscirono a tastoni dalla stanza da pranzo, passarono nel vestibolo. « Ci vediamo stasera, dopo cena », disse Giulia. Intenerita, invaghita, lo guardava dalla soglia, appoggiandosi ad uno stipite. Il velo, per il bacio, le si era spostato sul capo e pendeva scompostamente da una parte. Marcello le si avvicinò e le rimise a posto il velo dicendo: «Cosi va bene». In quel momento, ci fu un brusio di voci sul pianerottolo del piano di sotto. Giulia, vergognosa, si tirò indietro, gli lanciò un bacio con le punte delle dita e chiuse in fretta l’uscio. |
Alberto Moravia Il conformista |
Italiano Il conformista 136
index_italian_m
Gelsomino
Ïåñíè
Treccani
Âðåìåíà èòàëüÿíñêèõ
ãëàãîëîâ
L’utile e il dilettevole / 2