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Il conformista 116
Alberto Moravia - Il conformista PARTE PRIMA / CAPITOLO SECONDO (cont.) |
Ella trasse dalla tasca un foglio di carta e glielo tese. Marcello lo
prese e guardò. Era una lunga lista di persone, raggruppate per
famiglie: padri, madri, figlie, figli. Gli uomini erano indicati non
soltanto col nome e col cognome ma anche coi titoli professionali:
medici, avvocati, ingegneri, professori; e, quando li avevano, anche con
quelli onorifici: commendatori, grandi ufficiali, cavalieri. Accanto a
ciascuna famiglia, Giulia, per maggiore sicurezza, aveva scritto il
numero delle persone che la componevano: tre, cinque, due, quattro.
Erano quasi tutti nomi sconosciuti a Marcello e, pur tuttavia, gli sembrò di conoscerli da tempo:
tutte persone della media e piccola borghesia, professionisti e
funzionari statali; tutta gente che, senza dubbio, abitava in case come
questa, con salotti come questo, mobili come questi; e aveva figlie da
sposare molto simili a Giulia e le sposava a giovani laureati e
impiegati molto simili, come sperava, a lui stesso. Egli esaminò la
lunga lista, soffermandosi su certi nomi più caratteristici e più
comuni, con un compiacimento profondo seppure tinto della solita fredda
e immobile malinconia. « Ma chi è per esempio Arcangeli ? » non potè
fare a meno di domandare a caso. « Commendatore Giuseppe Arcangeli con
la moglie Iole, le figlie Silvana e Beatrice, il figlio dottor Gino? » «Niente, non li conosci... Arcangeli era un amico del povero papà, al Ministero ». «Dove abita?» «A due passi di qua, in via Porpora». « E com’è il suo salotto? » « Ma sai che sei buffo con le tue domande », ella esclamò ridendo, «come vuoi che sia?... Un salotto come questo e come tanti altri... perché, ti interessa tanto di sapere com’è il salotto di Arcangeli? » « E le figlie sono fidanzate ? » «Si, Beatrice... ma perché?...» « Com’è il fidanzato ? » « Uffa... anche il fidanzato... ebbene il fidanzato si chiama con un nome strano, Schirinzi, e lavora nello studio di un notaio ». Marcello notò che, dalle risposte di Giulia, non si poteva arguire in alcun modo come fossero fatti quei suoi invitati. Probabilmente, non avevano più carattere nella sua mente di quanto ne avessero sulla carta: nomi di persone rispettabili, indistinguibili, normali. Egli scorse di nuovo la lista e si fermò a caso sopra un altro nome : « E chi è il dottor Cesare Spadoni, con la moglie Livia e il fratello avvocato Tullio? » « È un medico per bambini... la moglie è una mia compagna di scuola... forse l’hai conosciuta: tanto carina, bruna, piccola, pallida... lui è un bel giovane, fine, distinto... anche il fratello è un bel giovane... sono gemelli ». «E il cavaliere Luigi Pace con la moglie Teresa e i quattro figli Maurizio, Giovanni, Vittorio, Riccardo ? » «Un altro amico del povero papà... i figli sono tutti studenti... Riccardo va ancora al liceo». Marcello capi che era inutile continuare a domandare ragguagli sulle persone iscritte nella lista. Giulia non avrebbe saputo dirgli molto di piu di quanto risultava nella lista stessa. E anche se, come pensò, l’avesse informato minutamente sul carattere e la vita di quelle persone, per forza queste informazioni non avrebbero oltrepassato i limiti assai angusti del suo giudizio e della sua intelligenza. Ma si accorse di essere contento, quasi in maniera voluttuosa, sebbene di una voluttà senza gioia, di entrare a far parte, grazie al suo matrimonio, di quella società cosi comune. Una domanda tuttavia gli stava sulla punta della lingua e, dopo un momento di esitazione, si decise a muoverla: « E dimmi... io rassomiglio ai tuoi invitati? » «Come sarebbe a dire... fisicamente?» « No... volevo sapere se secondo te... ho dei punti di somiglianza con loro... nei modi, nell’aspetto, nelle apparenze... insomma se gli somiglio ». « Tu per me sei meglio di tutti », ella rispose impetuosamente, « ma pel resto, si, sei una persona come loro: sei distìnto, serio, fine,... insomma, si vede che, come loro, sei una persona perbene... ma perché mi fai questa domanda ? » « Cosi ». « Come sei strano », ella disse guardandolo quasi con curiosità, « tutti vorrebbero essere diversi da tutti... e tu invece si direbbe che ci tieni ad essere come tutti ». Marcello non disse nulla e le rese la lista osservando a fior di labbra : « Comunque non ne conosco neppure uno ». « E che credi che anch’io li conosca tutti ? » disse Giulia allegramente, « molti lo sa soltanto la mamma chi sono... del resto il ricevimento passa presto... un’oretta e poi non li vedrai mai più ». «A me non dispiace vederli », disse Marcello. « Dicevo cosi per dire... ora senti il menù dell’albergo e dimmi se ti piace ». Giulia cavò di tasca un altro foglio e lesse ad alta voce: Consumato freddo Filetti di sogliola alla mugnaia Pollanca al riso, salsa suprema Insalata di stagione Formaggi assortiti Gelato diplomatico Frutta Caffè e liquori « Cosa ne dici », domandò, con lo stesso tono dubbioso e compiaciuto che aveva avuto pocanzi parlando della camera da letto della madre, « ti pare buono? Ti sembra che mangeranno abbastanza? » « Mi pare buonissimo e abbondante », disse Marcello. Giulia continuò: «Per lo champagne, abbiamo scelto champagne italiano... è meno buono di quello francese ma per brindare va bene lo stesso». Tacque un momento e poi soggiunse con la solita volubilità: « Lo sai che ha detto Don Lattanzi ? Che se vuoi sposarti devi comunicarti e se vuoi comunicarti devi confessarti... altrimenti lui non ci sposa ». Per un momento, Marcello, sorpreso, non seppe che dire. Non era credente e forse erano dieci anni che non entrava in chiesa. Inoltre era sempre stato convinto di nutrire una decisa antipatia per tutto quanto era ecclesiastico. Ora, invece, si accorgeva con meraviglia, che lungi dall’infastidirlo, quest’idea della confessione e della comunione gli piaceva e l’attraeva, un po’ come gli piacevano e l’attraevano il ricevimento di nozze, quegli invitati che non conosceva, il matrimonio con Giulia e Giulia stessa, cosi comune e simile a tante altre ragazze. Era un anello di più, come pensò, nella catena di normalità con la quale egli cercava di ancorarsi nelle sabbie infide della vita; e, per giunta, quest’anello era fatto di un metallo più nobile e resistente degli altri: la religione. Si sorprese quasi di non averci pensato prima e attribuì questa dimenticanza al carattere ovvio e pacifico della religione in cui era nato e alla quale gli era sempre sembrato di appartenere pur senza praticarla. Disse, tuttavia, curioso di sentire che cosa avrebbe risposto Giulia: « Ma io non sono credente». «E chi lo è», ella rispose tranquillamente, «il novanta per cento di coloro che frequentano le chiese, pensi che credano? E i preti stessi? » « Ma tu credi ? » Giulia fece un gesto con la mano, per aria : « Cosi e cosi, fino ad un certo punto... a Don Lattanzi glielo dico ogni tanto: non m’incantate con tutte le vostre storie, voi preti... ci credo e non ci credo... o meglio », soggiunse con scrupolo, « diciamo che ho una religione tutta mia... diversa da quella dei preti ». « Che significa avere una religione propria ? » pensò Marcello. Ma sapendo per esperienza che Giulia parlava spesso senza sapere troppo bene quel che si dicesse, non insistette. Disse invece : « Il mio caso è piu radicale... io non credo affatto, e non ho alcuna religione ». Giulia fece un gesto con la mano, allegro e indifferente: « Ma che ti costa?... Vacci lo stesso... a loro preme tanto, a te non costa nulla ». « Si, ma sarò costretto a mentire ». « Parole... e poi sarà semmai una bugia a fin di bene... sai che dice Don Lattanzi? Che bisogna fare certe cose, come se si credesse, anche se non si crede... la fede viene dopo». Marcello tacque un momento e poi disse: «Va bene... allora mi confesserò e farò la comunione ». E cosi dicendo provò di nuovo quel fremito di delizia un po’ tetra che poco prima gli aveva ispirato la lista degli invitati. « Allora », soggiunse, « andrò a confessarmi da Don Lattanzi ». « Non è mica necessario che vai da lui », disse Giulia, « puoi andare da qualsiasi confessore, in qualsiasi chiesa». « E per la comunione? » « Quella te la impartisce Don Lattanzi il giorno stesso che ci sposiamo... la facciamo insieme... quanto tempo è che non ti confessi ? » « Ma... credo che non mi sono confessato da quando ho fatto la prima comunione... a otto anni », disse Marcello un po’ imbarazzato, « poi mai più ». «Pensa», ella esclamò con gioia, «chissà quanti peccati hai da dichiarare... » « E se non mi assolvessero ? » « Ti assolvono di certo », ella rispose con affetto accarezzandogli il viso con una mano, « e poi che peccati vuoi avere?... Sei buono, di animo gentile, male non ne hai mai fatto a nessuno... ti assolvono subito ». « È complicato sposarsi », disse Marcello casualmente. « A me invece tutte queste complicazioni, questi preparativi piacciono tanto... dopo tutto dobbiamo restare uniti tutta la vita, no?... E, a proposito, per il viaggio di nozze che cosa decidiamo? » Per la prima volta Marcello avverti insieme al solito affetto indulgente e lucido quasi un sentimento di pietà per Giulia. Capiva che era ancora in tempo a trarsi indietro e invece che a Parigi, dove doveva svolgere la missione, andare altrove a trascorrere la luna di miele. Poi, al ministero, avrebbe detto che declinava l'incarico. Ma nello stesso tempo, si accorse che questo era impossibile. La missione era forse il passo più fermo, più compromettente e più decisivo sulla via della normalità definitiva; come erano passi in eguale direzione, ma meno importanti a suo vedere, il matrimonio con Giulia, il ricevimento, le cerimonie religiose, la confessione, la comunione. Non si fermò più che tanto ad analizzare questa riflessione il cui fondo tetro e quasi sinistro non gli sfuggiva, e rispose in fretta: «Dopo tutto ho pensato che potremmo andare a Parigi». Ebbra di gioia, Giulia, batté le mani : « Ah, bene... Parigi... il mio sogno». Gli gettò le braccia al collo e lo baciò con furore. « Se tu sapessi come sono contenta... ma non volevo dirtelo che desideravo tanto di andare a Parigi... temevo che costasse troppo ». « Costerà su per giù come gli altri posti », disse Marcello, « ma non ti preoccupare per il denaro... per questa volta lo troveremo». Giulia era rapita. « Come sono contenta », ripeteva. Si strinse con forza contro Marcello e gli mormorò : « Mi vuoi bene ? Perché non mi baci ? » ; e cosi, di nuovo, Marcello ebbe intorno il collo il braccio della fidanzata e la bocca di lei sulla sua. Questa volta l’ardore del bacio parve raddoppiato dalla gratitudine. Giulia sospirava, si torceva con tutto il corpo, si schiacciava contro il seno la mano di Marcello, rapidamente e spasmodicamente avvolgeva la lingua nella bocca di lui. Marcello si sentiva turbato e pensava : « Adesso, se volessi, potrei prenderla, qui, su questo divano»; e gli pareva di avvertire una volta di più la fragilità di quello che egli chiamava normalità. Finalmente si separarono e Marcello disse sorridendo: «Per fortuna ci sposiamo presto... altrimenti ho paura che uno di questi giorni diventeremmo amanti ». Giulia rispose, alzando le spalle, ancora tutta colorita in viso dal bacio, con una sua esaltata e ingenua impudenza. « Io ti amo tanto... non domanderei di meglio ». «Veramente?» domandò Marcello. « Anche subito », ella disse arditamente, « anche qui, adesso... ». Ora aveva preso una mano a Marcello e gliela baciava lentamente, sogguardandolo con lucidi occhi commossi. Poi la porta si apri e Giulia si tirò indietro. La madre di Giulia entrò. Anche costei, pensò Marcello guardandola avvicinarsi, era uno dei tanti personaggi introdotti nella sua vita dalla ricerca di una normalità riscattatrice. Nulla poteva esserci di comune tra lui e quella donna sentimentale e sempre traboccante di struggente tenerezza, nulla all’infuori del suo desiderio di legarsi durevolmente e profondamente ad una società umana solida e stabilita. La madre di Giulia, signora Delia Ginami, era una donna corpulenta, in cui i cedimenti dell’età matura parevano manifestarsi in una specie di disfacimento cosi del corpo come dell’animo, il primo afflitto da una grassezza tremolante e disossata, il secondo inclinato agli sdilinquimenti di una bontà fisiologica e smancerosa. Ad ogni passo che ella muoveva, sotto i panni informi, pareva che intere parti del suo corpo enfiato sbandassero e si spostassero per conto loro; ad ogni nonnulla, una commozione spasimosa sembrava soverchiare le sue facoltà di controllo, riempiendole di lagrime gli azzurri occhi annacquati, facendole giungere le mani in atteggiamenti estatici. In quei giorni, poi, l’imminenza delle nozze dell’unica figlia, avevano piombato la signora Delia in una condizione di perpetuo intenerimento: non faceva che piangere, dalla consolazione, come spiegava; e ad ogni momento sentiva il bisogno di abbracciare Giulia o il futuro genero al quale, a suo dire, si era già affezionata come ad un figlio. Marcello che queste effusioni riempivano d’impaccio, comprendeva tuttavia che esse non erano che un aspetto della realtà in cui egli voleva inserirsi; e come tali le sopportava e le apprezzava, con lo stesso compiacimento un po’ tetro che gli ispiravano i brutti mobili della casa, i discorsi di Giulia, i festeggiamenti per le nozze e le imposizioni rituali di Don Lattanzi. La signora Delia, questa volta, però, non era intenerita bensì indignata. Sventolava nella mano un foglio di carta e disse, dopo aver salutato Marcello che si era levato in piedi: «Una lettera anonima... ma prima di tutto andiamo di là.., è pronto ». |
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L’utile e il dilettevole / 2