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Il conformista 108
Alberto Moravia - Il conformista PARTE PRIMA |
CAPITOLO SECONDO Ormai era tardi e, appena fuori del ministero, Marcello affrettò il passo. Alla fermata dell’autobus, si mise in coda, nel mezzo della folla affamata e nervosa del mezzodì, e pazientemente aspettò il suo turno per salire nel carrozzone già affollato. Compì una parte del percorso appeso di fuori, sul predellino, poi, con molta fatica, riuscì ad insinuarsi sulla piattaforma e lì rimase, stretto d’ogni parte da altri passeggeri, mentre l’autobus sussultando e rombando si inerpicava dal centro della città, su per le strade in salita, verso la periferia. Questi disagi, però, non lo irritavano, anzi gli parevano utili dal momento che erano condivisi da tanti altri e, sia pure in piccola misura, contribuivano a renderlo simile a tutti. D’altra parte i contatti con la folla, per quanto sgradevoli e scomodi, gli piacevano e gli parevano sempre preferibili a quelli con gli individui: dalla folla, come pensò mentre si levava in punta di piedi nella piattaforma per respirare meglio, gli veniva il sentimento confortante di una comunione multiforme che andava dal farsi pigiare dentro un autobus fino all’entusiasmo patriottico delle adunate politiche; ma dagli individui non gli venivano che dubbi sopra se stesso e su gli altri, come quel mattino durante la sua visita al ministero. Perché, per esempio, pensò ancora, subito dopo essersi offerto di abbinare il viaggio di nozze alla missione, egli aveva provato il sentimento penoso di aver compiuto un atto sia di servilità non richiesta, sia di fanatismo ottuso? Perché, si disse, tale offerta era stata fatta a quell’uomo scettico, intrigante e corrotto, a quell’indegno e odioso segretario. Era lui, con la sua sola presenza, che gli aveva ispirato vergogna per un atto, come quello, cosi profondamente spontaneo e disinteressato. E adesso, mentre l’autobus rotolava da una fermata all’altra, egli si rinfrancava dicendosi che tale vergogna non l’avrebbe provata se non si fosse trovato di fronte a un uomo come quello, per cui non esistevano né fedeltà, né dedizione, né sacrificio, bensì soltanto calcoli, prudenza e tornaconto. In realtà la sua offerta non era scaturita da una speculazione della mente, bensì dall’oscura profondità dell’animo, dimostrazione sicura, oltre tutto, del carattere autentico del suo inserimento nella normalità sociale e politica. Un altro, il segretario per esempio, avrebbe fatto una simile offerta dopo lunghe e furbe riflessioni; lui invece l’aveva improvvisata. Quanto alla sconvenienza di abbinare il viaggio di nozze alla missione politica, non c’era neanche da perder tempo a esaminarla. Egli era quello che era e tutto quello che faceva era giusto che fosse conformato a quello che era. Tra questi pensieri, discese dall’autobus e si avviò per la strada del quartiere impiegatizio, sul marciapiede piantato di oleandri bianchi e rosa. I palazzi degli impiegati di Stato, massicci e scalcinati, spalancavano su questo marciapiede i grandi portoni in fondo ai quali si intravvedevano vasti e squallidi cortili. Alternate ai portoni si susseguivano le botteghe modeste che Marcello ormai conosceva bene: il tabaccaio, il panettiere, l’erbivendolo, il macellaio, il droghiere. Era il mezzodì, e, perfino tra quelle fabbriche anonime, si rivelava, per molti segni, la tenue, effimera letizia propria alla sospensione del lavoro e alla riunione familiare: odori di cucina che venivano dalle finestre socchiuse dei pianterreni; fretta di uomini malvestiti che infilavano quasi di corsa i portoni; qualche voce di radio, qualche suono di grammofono. Da un giardinetto chiuso nella rientranza di uno dei palazzi, la spalliera di rose rampicanti della cancellata salutò il suo passaggio con un’ondata di acuto, polveroso olezzo. Marcello affrettò il passo e, al portone numero diciannove, insieme con altri due o tre impiegati, imitandone non senza compiacimento la fretta, entrò e si avviò su per la scala. Prese a salire lentamente per le rampe larghe in cui un’ombra squallida si alternava alla luce sfarzosa dei finestroni dei pianerottoli. Ma al secondo piano ricordò che aveva dimenticato qualche cosa: i fiori che non mancava mai di portare alla fidanzata tutte le volte che era invitato a colazione a casa di lei. Contento di essersene ricordato a tempo, ridiscese di corsa la scala, uscì nella strada e andò direttamente all’angolo del palazzo dove una donna accovacciata su uno sgabello esponeva in certi suoi barattoli i fiori di stagione. Scelse in fretta una mezza dozzina di rose, le più belle che la fioraia avesse, lunghe e col gambo dritto, di un rosso cupo, e tenendole al naso e respirandone il profumo, rientrò nel palazzo e salì, questa volta, fino all’ultimo piano. Qui, sul pianerottolo, non si apriva che una sola porta; una minore scaletta portava più su ad una porticina rustica, sotto la quale brillava la luce forte della terrazza. Egli suonò pensando : « Speriamo che non venga ad aprirmi la madre». La futura suocera gli dimostrava infatti un amore quasi smanioso che l’imbarazza va profondamente. Di li ad un momento la porta si apri e Marcello scorse con sollievo, nell’ombra dell’anticamera, la figura della servetta quasi bambina, infagottata in un grembiale bianco troppo grande per lei, il viso pallido incoronato da un duplice giro di trecce nere. Ella richiuse la porta non senza sporgersi un momento a guardare con curiosità sul pianerottolo; e Marcello, respirando a piene narici il forte odore di cucina che riempiva l’aria, passò nel salotto. La finestra del salotto era socchiusa, per impedire al caldo e alla luce di entrare, non tanto però che, nell’ombra rada, non si distinguessero gli scuri mobili in falso stile rinascimento che ingombravano la stanza. Erano mobili pesanti, severi, fittamente scolpiti e formavano un contrasto singolare con i sopramobili, tutti di un gusto civettuolo e scadente disseminati sulle mensole e sul tavolo : una donnina nuda inginocchiata sull’orlo di un portacenere, un marinaio di maiolica azzurra che suonava la fisarmonica, un gruppo di cani bianchi e neri, due o tre lumi in forma di boccia o di fiore. C’erano molti portaceneri di metallo e di porcellana che in origine, come sapeva, avevano contenuto confetti di nozze di amiche e parenti della sua fidanzata. Le pareti erano tappezzate di una stoffa rossa di finto damasco e paesaggi e nature morte dai vivaci colori, incorniciate di nero, vi stavano appesi. Marcello sedette sul divano, già ricoperto della foderina estiva, e si guardò intorno con soddisfazione. Era proprio una casa borghese, come rifletté una volta di più, della borghesia più convenzionale e più modesta, in tutto simile ad altre case di quello stesso palazzo, di quello stesso quartiere; e questo era per lui l’aspetto più gradito: la sensazione di trovarsi di fronte a qualche cosa di molto comune, di quasi dozzinale, e però di perfettamente rassicurante. Si accorse di provare, a questo pensiero, un sentimento quasi abbietto di compiacimento per la bruttezza della casa: egli era cresciuto in una casa bella e di buon gusto e si rendeva conto che tutto quanto adesso lo circondava, era brutto senza rimedio; ma proprio di questo aveva bisogno, di questa bruttezza cosi anonima come di un tratto di più che l’accomunasse ai propri simili. Ricordò che per mancanza di denaro, almeno nei primi anni, loro due, Giulia e lui, dopo sposati, avrebbero dovuto abitare in quella casa; e quasi benedisse la povertà. Da solo, seguendo il suo gusto, una casa cosi brutta e cosi comune non sarebbe stato capace di metterla su. Presto dunque quello sarebbe stato il suo salotto; come la camera da letto di stile liberty in cui per trentanni avevano dormito la futura suocera e il suo defunto marito sarebbe stata la sua camera da letto; e la sala da pranzo di mogano in cui Giulia e i genitori avevano consumato i pasti due volte al giorno per tutta la loro vita, sarebbe stata la sua sala da pranzo. Il padre di Giulia era stato funzionario importante in un ministero e quella casa montata secondo il gusto del tempo della sua giovinezza era una specie di tempio elevato pateticamente in onore delle divinità gemelle della rispettabilità e della normalità. Presto, pensò ancora con una gioia quasi ghiotta e lasciva e al tempo stesso triste, egli si sarebbe inserito di diritto in questa normalità e rispettabilità. La porta si apri c Giulia entrò impetuosamente, parlando nel corridoio con qualcuno, forse con la servetta. Quindi, come ebbe finito di parlare, chiuse la porta e venne in fretta incontro al fidanzato. Giulia, a ventanni, era formosa come una donna di trenta, di una formosità poco fine e quasi popolana ma fresca e solida che rivelava insieme l’età giovanile e non si capiva quale illusione e gioia carnale. Era bianchissima di carnagione, con gli occhi grandi, di una limpidezza scura e languida, i capelli castani folti e ben ondulati, le labbra fiorite e rosse. Marcello, vedendola venirgli incontro, vestita di un leggero abito di taglio maschile nel quale parevano esplodere le forme della persona esuberante, non potè fare a meno di pensare, con rinnovato compiacimento, che sposava propria una ragazza normale, del tutto comune, molto simile al salotto dal quale poco prima gli era venuto tanto sollievo. E un sollievo simile, quasi un refrigerio, gli venne udendo una volta di più la voce di lei, strascicata, bonaria, dialettale che diceva: « Ma che belle rose... Perché? Te l’ho già detto che non devi disturbarti... fosse la prima volta che vieni a colazione da noi ». Intanto andava ad un vaso azzurro collocato sopra una colonna di marmo giallo, in un angolo, e vi metteva le rose. « Mi fa piacere portarti dei fiori », disse Marcello. Giulia trasse un sospiro di soddisfazione e si lasciò cadere di sfascio sul divano, accanto a lui. Marcello la guardò e notò che un subito impaccio aveva sostituito la impetuosa disinvoltura di un momento prima: segno indubbio di un incipiente turbamento. Poi, tutto ad un tratto, ella si voltò verso di lui e, gettandogli le braccia la collo, gli mormorò : « Baciami ». Marcello le circondò con il braccio la vita e la baciò sulla bocca. Giulia era sensuale e, in questi baci, quasi sempre richiesti da lei a Marcello riluttante, veniva sempre il momento che questa sua sensualità si insinuasse aggressivamente, modificando il carattere casto e previsto dei loro rapporti di fidanzati. Anche questa volta, quando le loro labbra stavano già per separarsi, ella ebbe come un soprassalto di vogliosa lascivia e, circondando improvvisamente a Marcello il collo con un braccio, riapplicò con forza la sua bocca su quella di lui. Egli senti la lingua di lei farsi strada tra le sue labbra e poi muoversi rapidamente torcendosi e avvolgendosi dentro la sua bocca. Intanto Giulia gli aveva afferrato una mano e se l’era portata al petto, guidandola a farsi stringere la mammella sinistra. Nello stesso tempo, soffiava per le narici e sospirava forte con un rumore animalesco, innocente, insaziato. Marcello non era innamorato della fidanzata; ma Giulia gli piaceva e questi abbracci cosi sensuali non mancavano mai di turbarlo. Tuttavia non si sentiva inclinato a contraccambiare questi trasporti: voleva che i suoi rapporti con la fidanzata si mantenessero dentro i limiti tradizionali, quasi parendogli che una maggiore intimità avrebbe introdotto di nuovo nella sua vita quel disordine e quell’anormalità che si studiava tutto il tempo di scacciarne. Cosi, dopo un poco, staccò la mano dal seno di lei e pian piano la respinse. « Uh, come sei freddo », disse Giulia tirandosi indietro e guardandolo con un sorriso, « davvero che qualche volta penserei che tu non mi voglia bene ». Marcello disse : « Lo sai che ti voglio bene ». Ella prosegui con volubilità : « Sono tanto contenta... non sono mai stata cosi felice... a proposito, lo sai che la mamma anche stamattina ha insistito che prendiamo la sua camera da letto... lei si ritirerà in quella stanzetta in fondo al corridoio... che ne dici?... Dobbiamo accettare? » « Credo », disse Marcello, « che le dispiacerebbe se rifiutassimo ». « È quello che penso anch’io... figurati che quando ero bambina sognavo di dormire un giorno in una camera come quella... adesso non so se mi piaccia più tanto... a te piace?» ella domandò in tono dubbioso e insieme compiaciuto come chi tema il giudizio altrui sopra un suo gusto e vorrebbe vederlo approvato. Marcello si affrettò a rispondere : « Mi piace moltissimo... è molto bella». E vide che queste parole destavano in Giulia una soddisfazione visibile. Piena di gioia ella gli scoccò un bacio sulla guancia e poi continuò : « Ho incontrato stamani la signora Persico... e l’ho invitata al ricevimento... sai che non sapeva che mi sposavo?... Mi ha fatto tante domande... quando gli ho detto chi eri, mi ha detto che conosceva tua madre... l’aveva incontrata al mare qualche anno fa». Marcello non disse nulla. Parlare di sua madre con cui non viveva da anni e che vedeva raramente, gli riusciva sempre assai sgradevole. Per fortuna, Giulia, senza rendersi conto del suo impaccio, per sola volubilità, cambiò di nuovo argomento : « A proposito del ricevimento... abbiamo fatto la lista degli invitati... vuoi vederla? » « Si, fammela vedere ». |
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