Quella fatale tendenza verso l’ignoto che c’è nel cuore umano, e si rivela
nelle grandi come nelle piccole cose, nella sete di scienza come nella curiosità
del bambino, è uno dei principali caratteri dell’amore, direi la principale
attrattiva: triste attrattiva, gravida di noie o di lagrime — e di cui la triste
scienza inaridisce il cuore anzi tempo. Cotesto amore dunque che ha ispirato
tanti capolavori, e che riempie per metà gli ergastoli e gli ospedali, non
avrebbe in sè tutte le condizioni di essere, che a patto di servire come mezzo
transitorio di fini assai più elevati — o assai più modesti, secondo il punto di
vista — e non verrebbe che l’ultimo nella scala dei sentimenti? La ragione della
sua caducità starebbe nella sua essenza più intima? e il terribile dissolvente
che c’è nella sazietà, o nel matrimonio, dipenderebbe dall’insensato
soddisfacimento d’una pericolosa curiosità? La colpa più grave del
fanciullo-uomo sarebbe la pazza avidità del desiderio che gli fa frugare colle
carezze e coi baci il congegno nascosto del giocattolo-donna, il quale ieri
ancora, gli faceva tremare il cuore in petto come foglia?
All’ultimo veglione della Scala, in mezzo a quel turbine d’allegria frenetica,
avevo incontrato una donna mascherata, della quale non avevo visto il viso, di
cui non conoscevo il nome, che non avrei forse riveduta mai più, e che mi fece
battere il cuore quando i suoi sguardi s’incontrarono nei miei, e mi fece
passare una notte insonne, col suo sorriso sempre dinanzi agli occhi, e negli
orecchi il fruscìo del raso del suo dominò.
Ella appoggiavasi al braccio di un bel giovanotto, era circondata dagli eleganti
del Circolo, adulata, corteggiata, portata in trionfo; era svelta, elegante, un
po’ magrolina, avea due graziose fossette agli ómeri, le braccia delicate, il
mento roseo, gli occhi neri e lucenti, il collo eburneo, un po’ troppo lungo ed
esile, ombreggiato da vaghe sfumature, là dove folleggiavano certi ricciolini
ribelli; il suo sorriso era affascinante; vestiva tutta di bianco, con una gala
di nastro color di rosa al cappuccio, e faceva strisciare sul tappeto il lembo
della veste, come una regina avrebbe fatto col suo manto. Tutto ciò insieme a
quel pezzettino di raso nero che le celava il viso, ricamato da tutti i punti
interrogativi della curiosità, dove brillavano i suoi occhi, e dietro al quale
l’immaginazione avrebbe potuto vedere tutte le bellezze della donna, e porla su
tutti i gradini della scala sociale. Ella imponeva l’ingenuità, la grazia, il
pudore di una fanciulla da collegio in mezzo ad un crocchio di uomini, fra i
quali una signora per bene non sarebbesi avventurata neppure in maschera.
Era seduta colle spalle rivolte alla sala, accanto al suo giovanotto, e gli
parlava come parlano le donne innamorate, divorandolo cogli occhi, e facendogli
indovinare i vaghi rossori che scorrevano sotto la sua maschera, e i sorrisi
affascinanti; gli posava la mano sulla spalla, e l’accarezzava col ventaglio;
sembrava che si facesse promettere qualche cosa, con una insistenza affettuosa e
carezzevole.
Io avrei dato qualunque cosa per essere al posto di quel giovanotto, il quale
semibrava mediocremente lusingato di quella preferenza; avrei voluto indovinare
tutto ciò che non potevo udire, tutto ciò che si agitava nel cuore di lei; avrei
voluto penetrare attraverso la seta di quella maschera; l’incognito di quel
viso, di quella persona, e di quel modesto romanzetto sbocciato al gas della
Scala aveva mille attrattive per un osservatore. La mia simpatia, o la mia
curiosità, avrà dovuto penetrarla come corrente elettrica; perchè si volse a
guardarmi due o tre volte, con quei suoi occhioni neri; poi si alzò, prese il
braccio del suo compagno e si allontanò.
Sembrommi che all’allegria di quella festa fosse succeduta una inesplicabile
musoneria, che mi mancasse qualche cosa; la cercavo con un’avida speranza di
rivederla, quasi cotesta sconosciuta fosse diggià qualche cosa per me.
Sul tardi ci trovammo di nuovo faccia a faccia accanto alla porta, mentre ella
usciva dalla sala ed io vi rientravo. Rimanemmo immobili, guardandoci
fissamente, a lungo, come due che si conoscono, quasi anch’io, dopo averla
guardata tre o quattro volte durante la sera, fossi diventato qualche cosa per
lei, il cuore mi batteva e sentivo che doveva battere anche a lei; sembravami
che entrambi bevessimo qualche cosa l’uno negli occhi dell’altro; assaporavo il
suo sorriso assai prima che le sue labbra si schiudessero: ella mi sorrise
infatti — un getto di buonumore e di simpatia che diceva: “So che ti piaccio, e
anche tu mi piaci!„ La parola più affettuosa, la lingua più dolce del mondo, non
avrebbero potuto riprodurre l’eloquenza di quel sorriso; il pensatore più
eminente, o l’uomo di mondo più sperimentato, non avrebbe potuto analizzare quel
sentimento che irrompeva improvviso in un’occhiata, fra due persone che
s’incontravano in mezzo alla folla, come due viaggiatori che partono per opposte
direzioni, s’incontrano in una stazione, l’una accanto ad uomo che amava forse
ancora, l’altro che avea visto il braccio di lei sull’ómero di quell’uomo. Due o
tre volte ella si rivolse a guardarmi collo stesso sorriso, ed io la seguii,
senza sapere io stesso dietro a quale lusinga corressi. La folla me la fece
perdere di vista; la cercai inutilmente nel ridotto, pei corridoi, nel caffè, in
platea, da Canetta, in quei palchi che potei passare in rassegna, dappertutto.
Avevo la febbre di uno strano desiderio; divoravo cogli occhi tutti i dominò
bianchi, tutte le vesti che avessero ondulazioni graziose. A un tratto me la
vidi improvvisamente dinanzi, o piuttosto incontrai il suo sguardo che mi
cercava. Io dava il braccio ad una donna che rivedevo quella sera dopo lungo
tempo. Nello sguardo dell’incognita c’era una muta interrogazione; ella mi
sorrise di nuovo; non potei far altro che mandarle un saluto mentre mi passava
accanto; ella si voltò vivamente, mi lanciò a bruciapelo uno sguardo ed un
sorriso e ripetè: — Addio! — Non dimenticherò mai più quella voce e
quell’accento!
Non la vidi più. Rimasi a digerire il mio dispetto e il cicaleccio della mia
compagna. Sognai tutta la notte, senza chiudere gli occhi, quel viso che non
conoscevo; sentivami in cuore un solco luminoso lasciatovi da quello sguardo;
l’impossibilità di rintracciarla dava all’apparizione di quella sconosciuta un
prestigio di cosa straordinaria; nel sorriso di lei io poteva immaginare un
poema d’amore, che riceveva tutto l’interesse dall’essere troncato sul fiore e
per sempre. Per sempre! non è la parola che scuote maggiormente l’animo umano?
Io prolungai quel sogno per tutto il giorno. Sembravami che ci fosse qualche
cosa di nuovo in me, e che avessi ricevuto il sacramento di una perdita immensa.
Quando la mia immaginazione si stancò di vagare nelle azzurre immensità
dell’ignoto, per una reazione naturale del pensiero, io guardai con sorpresa nel
mio cuore, e domandai a me stesso, se mi fossi innamorato di quel pezzettino di
raso nero che nascondeva un viso sconosciuto.
Lo sguardo di quell’incognita mi aveva messo il cuore in sussulto mentre davo il
braccio ad un’altra donna che un tempo avevo amato come un pazzo, e che in quel
momento istesso si esponeva al più grave pericolo per me. Io maledivo
l’ostinazione di cotesto affetto che mi impediva di correre dietro alla
sconosciuta con tutto l’egoismo che c’è in un altro amore.
Per due o tre giorni cercai ansiosamente quell’amante che non conoscevo, e
sentivo che il rivederla mi avrebbe tolto qualche cosa di lei. La rividi in
Galleria, la riconobbi a quello sguardo e a quel sorriso che mi dicevano: “Son
io, mi ravvisi?„ Mi sentivo spinto fatalmente verso di lei, e venti volte fui
sul punto di prenderle la mano al cospetto delle persone che l’accompagnavano.
In piazza della Scala si rivolse due o tre volte per vedere se la seguissi. Le
vaghe incertezze, le gioie tumultuose, i febbrili desiderii dell’amore a
vent’anni mi inondarono il cuore in una volta: l’ondeggiare della sua veste
sembravami avesse qualche cosa di carezzevole; il suo paltoncino bianco, e il
fazzoletto che pel freddo si teneva sul viso, avevano irradiazioni luminose. Io
non saprei ridire l’emozione che provai al pensiero di poterle dare il braccio,
o di poter toccare un lembo di quel fazzoletto. Ad un tratto ella attraversò la
via, insieme alla sua compagna, e seguita dalla sua scorta di parenti,
camminando sulla punta dei piedi e rialzando il lembo del suo vestito, venne a
mettersi al mio fianco. Mi guardò in viso come se aspettasse qualche cosa da me.
Io sentii un dolore acuto, e volsi le spalle.
La rividi ancora parecchie volte, e gli occhi di lei mi domandavano: “Cos’hai?„
Io non osavo dirle: “Non mi piaci più.„ Ella si stancò di sollecitare i miei
sguardi, e quando mi incontrò volse altrove il capo. Una sera, sotto il portico
della Scala, sentii afferrarmi la mano da una mano tremante che vi lasciò un
bigliettino microscopico. Mi rivolsi vivamente: non vidi che visi sconosciuti, e
un po’ più lungi la mia incognita che si allontanava senza guardarmi, sebbene
fosse passata così lontano, sebbene da qualche tempo distogliesse da me lo
sguardo con indifferenza, tutte le volte che mi incontrava, il mio pensiero
corse a lei senza esitare un momento, nello stesso tempo che per una strana
contraddizione tacciavo di follia il mio presentimento.
Una sola parola riempiva tutto il biglietto: “Seguitemi.„ Chi? dove? perchè?
Coteste interrogazioni diedero colori di fuoco a quella semplice parola; il
mistero che vi era racchiuso si rannodava, con logica irresistibile, a
quell’incognita, e le ridava tutta quella vaga e indefinibile attrattiva che il
vedermela al fianco, sotto il fanale a gas, avea fatto svanire in un lampo; il
dubbio d’ingannarmi mi mise addosso mille impazienze. Ella non sembrava nemmeno
accorgersi di me — io la seguii. Quando la porta della sua casa mi si chiuse in
faccia rimasi in mezzo alla strada, senza avere la forza di andarmene, coi piedi
nella neve, tutte le finestre della via che mi guardavano, e i questurini che
venivano a passarmi vicino. Dalle undici alle due del mattino io non ebbi un
momento di esitazione o di stanchezza; non dubitai un istante. Udii aprire pian
piano la porta, e vidi nell’ombra dell’arcata una forma bianca. Ella tremava
come una foglia quando le toccai la mano; sembrava che avesse la febbre; mi
disse con voce strozzata dalla commozione: — Che avete? che vi ho fatto?
ditemelo — come se ci conoscessimo da dieci anni. Certe situazioni, certe
parole, certe inflessioni di voce hanno significazioni evidenti, irresistibili;
la giovinetta che avevo incontrata al veglione, in mezzo ad uomini che portavano
in trionfo Cora Pearl, e la quale mi gettava le braccia al collo nel buio di una
scala, dava la più luminosa prova di candore coll’espansione della sua simpatia:
sentimento strano che non sapevo spiegare, e di cui non osavo chiederle ragione.
Nella sua fiducia c’era tanta innocenza che avrei voluto rubarle gli orecchini
per insegnarle a diffidare degli uomini. Sentivo fra le mie le sue povere mani
tremanti, e le sue parole sommesse sembrava che mi sfiorassero il viso come un
bacio. Certi sentimenti inesplicabili hanno un fondamento essenzialmente
materiale; tutto l’incanto di quell’ora di paradiso stava nel buio di quella
scala. Sembravami che le larve dell’ideale avessero preso corpo e mi
stringessero le mani: — Io ti son piaciuta senza che tu mi avessi vista in viso,
ella mi disse. Ecco perchè ti amo — e non mi domandò nemmeno come mi chiamassi.
Ella si fece promettere che sarei tornato a vederla la notte seguente. Ahimè!
insensata promessa che rimpiccioliva il desiderio nelle meschine proporzioni di
un volgare appuntamento. Noi avremmo dovuto inventare tutti gli ostacoli che
mancavano alla nostra felicità, o non rivederci mai più. La notte seguente
tornai da lei con un sentimento penoso, come se avessi perduto qualche cosa. La
rividi nel suo salottino, raggiante di bellezza, ed il cuore mi si dilatò di
gioia, quasi le prime sensazioni della sciagura fossero piacevoli; contemplavo
avidamente quelle leggiadre sembianze che s’imporporavano per me, e in mezzo
alla festa del mio cuore sentivo insinuarsi un vago turbamento — il mio ideale
svaniva; tutto quello che c’era in quella bellezza veramente incantevole era
tolto ai miei sogni; sembravami che il mio pensiero si fosse impoverito
trovandosi costretto nei limiti della realtà. — Che hai? mi disse. — Nulla,
risposi, c’è troppa luce qui. — Ella, povera ragazza, moderò la fiamma della
lucerna. Non si avvedeva del turbamento che c’era in me, e non avea paura della
funesta avidità con la quale i miei occhi la divoravano. Parlava sorridente,
giuliva, come un uccelletto innamorato canta su di un ramoscello; mi raccontò la
sua storia, una di quelle storie che l’angelo custode ascolta sorridendo. Aveva
amato il cugino con cui l’avevo vista al veglione, era venuta colla zia da Lecco
per lui, e il cugino, in capo a due o tre giorni di esitazione, le avea fatto
capire bellamente che non l’amava più. Allora, dopo le prime lagrime, ella avea
pensato a quello sconosciuto che al veglione della Scala l’avea guardata in quel
modo. — Io ti ho letto negli occhi che ti piacevo, mi disse, e ti sorrisi perchè
ciò mi rendeva tutta lieta; in quel momento avevo un gran dolore in cuore. Se
mio cugino avesse seguitato ad amarmi, io non te lo avrei mai detto, ma ti avrei
sempre voluto bene come un fratello. Ora che mio cugino non vuol saperne più di
me.... ebbene, anch’io voglio amare chi più mi piace! — Tossiva di quando in
quando, le guancie le si imporporavano, e gli occhi le si facevano umidi. — Non
mi dire che mi sposerai, se vuoi lasciarmi come quell’altro.... Sono stata tanto
malata! — Addio! le dissi. — Tornerai domani? La zia va dalle mie cugine, non
aver paura; tornerai? — Addio.
Non la vidi più. Sentii che mi sarei trovato umile e basso dinanzi alla fiducia
e all’entusiasmo di quell’amore che non dividevo più. E sentivo del pari di aver
perduto irremissibilmente un tesoro.
In novembre ricevetti una lettera listata di nero; era lo stesso carattere che
avea scritto seguitemi; le mani mi tremavano prima d’aprirla: Se volete ripetere
l’addio che deste ad una mascherina all’ultimo veglione della Scala, scrivevami,
recatevi al Cimitero fra una settimana, e cercate della croce sulla quale sarà
scritto X.
Quella lettera, per un caso che farebbe credere alla fatalità, s’era smarrita
alla Posta, e mi pervenne con qualche giorno di ritardo. Io volai a quella casa
che non avevo più riveduta; scorgendo le persiane chiuse, il cuore mi si strinse
dolorosamente. Corsi al Cimitero, senza osare di credere al presagio funesto di
quella lettera; al primo viale che infilai, quasi il destino si fosse incaricato
di guidare i miei passi, alla prima terra smossa di fresco, su di una croce di
ferro, lessi quel segno che ella avea desiderato sulla tomba, triste geroglifico
del suo amore; e lì, coi ginocchi nella polvere, mi parve di guardare in un
immenso buio, tutto riempito dalla figura della mia incognita, dal suo sorriso,
dal suono della sua voce, delle parole che mi ha dette, dai luoghi dove l’avevo
vista. Sentii un gran freddo.
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